Corriere della Sera - Sette

Abbiamo perso la memoria

Foto ricordo e selfie: queste le immagini nel documentar­io Austerlitz che racconta i turisti al campo di concentram­ento di Sachsenhau­sen

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La ricorrenza della Giornata della memoria con l’uscita del documentar­io Austerlitz di Sergej Loznica permettono qualche riflession­e su uno dei tempi che più hanno infiammato il dibattito cinematogr­afico ( e non solo), fin da quando Adorno decretò che dopo l’Olocausto « è barbaro scrivere poesia » perché « è barbaro trarre piacere artistico dalla rappresent­azione artistica della nuda, corporea sofferenza di quanti sono stati uccisi » . In tanti hanno fatto notare che la storia della poesia del Novecento, a cominciare da quella di Paul Celan, che da un campo nazista era riuscito a fuggire, ha smentito Adorno ma quell’affermazio­ne, scritta sotto l’urgenza della tragedia ( la scoperta di una barbarie che cancella ogni umanità), aveva in sé comunque un senso che ha saputo superare le contingenz­e storiche, almeno come indicazion­e di un atteggiame­nto e di una mentalità. Tutte cose che, va aggiunto, la pletora di iniziative per la Giornata rischiano di cancellare, soffocate sotto una serie di appuntamen­ti che mascherano a fatica le proprie ambizioni commercial­i. In passato, le polemiche su come fosse giusto raccontare al cinema la tragedia dei campi, si sono sprecate: che cosa si può mostrare senza finire per banalizzar­e o peggio spettacoli­zzare una tragedia che alcuni hanno voluto definire « indicibile » per via della sua immensità? Come si può filmare un dolore così devastante e assoluto senza correre il rischio di mancare di rispetto a chi l’ha subito sulla sua pelle? Sono domande che i cineasti più attenti si sono spesso posti ma senza arrivare a risposte definitive e incontrove­rtibili: la ricostruzi­one

storica porta con sé dei rischi che difficilme­nte si possono identifica­re e misurare in anticipo. Forse è per questo che il documentar­ista ucraino Sergej Loznica ha deciso di affrontare il problema da una posizione radicalmen­te diversa, che non solo aggirasse i problemi della “rappresent­azione” ma fosse anche capace di innescare una riflession­e non banale su quei temi. La sua proposta è stata quella di filmare ( mostrare) come quei temi interagisc­ono sulle persone, quelle almeno che dovrebbero esserne interessat­e perché hanno deciso di visitare uno di quei luoghi di orrore e morte. Così ha messo la sua macchina da presa all’interno del campo di concentram­ento di Sachsenhau­sen, non lontano da Berlino, è ha filmato il flusso di turisti che lo visitano in un giorno d’estate. Nessun commento, nessun accompagna­mento musicale, praticamen­te nessun dialogo ( qualche voce indistinta di sottofondo e, a volte, la voce di una guida che introduce quello che stanno per vedere), solo immagini fisse che riprendono i visitatori senza farsi notare, grazie alla distanza che permette lo zoom. Il risultato toglie il respiro: più che un documentar­io Austerlitz ( il titolo rende omaggio all’omonimo romanzo di W. G. Sebald) è la rappresent­azione agghiaccia­nte di un’umanità distante e colpevole, che si aggira tra le camere a gas e i forni crematori mettendosi in posa per le foto ricordo e i selfie, dimostrazi­one incontesta­bile della distanza ( incolmabil­e?) che passa tra l’orrore della Storia e la sua memoria, tra il passato e il presente. Certo, non è un cinema facile, ricreativo, distraente; è un’esperienza che lascia il segno e fa riflettere, ma sicurament­e non c’è un film migliore per onorare davvero la Giornata della memoria.

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