Il mistero del linguaggio
Le origini di ciò che più ci distingue dagli animali restano oscure. E il padre del “new journalism” attacca Darwin e Noam Chomsky
Quella sera, alla Linnean Society di Londra, quando fu illustrata per la prima volta la teoria dell’evoluzione, i vecchi parrucconi presenti cercarono « di fare del loro meglio per sorbirsi niente meno che la prima enunciazione pubblica d’una dottrina che avrebbe rivoluzionato lo studio della specie umana. E ucciso Dio, se Nietzsche avesse avuto modo di dire la sua. Al momento, però, accolsero la scoperta con grossi sbadigli » . Charles Darwin, che come tutti i gentlemen e i rentier disprezzava le persone di basso rango, dovette dividere la scena con Alfred Wallace, un naturalista plebeo che campava procurando animali ( insetti, serpenti, pappagalli) ai naturalisti di sangue blu. Lavorando sul campo, da « acchiappamosche » , Wallace era arrivato alle stesse conclusioni di Darwin circa l’origine delle specie. Darwin, che covava la sua teoria da decenni, non aveva mai osato metterla per iscritto, per non essere tacciato d’ateismo. Wallace lo costrinse ad affrontare la tempesta, come racconta Tom Wolfe – autore di Radical chic e del Falò delle vanità, inventore del new journalism – in un altro dei suoi libri straordinari, Il regno della parola, una storia dei trionfi del darwinismo e del suo scacco: l’impossibilità di spiegare l’origine del linguaggio con la teoria dell’evoluzione. Fu Wallace il primo a lanciare l’allarme: unde eloquium? Darwin parò il colpo con un’imbarazzante spiegazione a tavolino: il linguaggio, scrisse, è l’evoluzione dei richiami d’accoppiamento degli uccelli. D’evoluzione del linguaggio, per i successivi settant’anni, non si parlò più: una cortina di fumo oscurò il « bug » che minacciava d’ « annientare » ( come scrisse Darwin a Wallace) i fondamenti della teoria. Gli evoluzionisti tornarono a ragionare di linguaggio quando sorse la stella di Noam Chomsky, a metà del XX secolo. Futuro guru dei movimenti noglobal, nel 1954 Chomsky era l’enfant prodige della linguistica darwiniana. Aveva imposto a occhiatacce la sua teoria d’un fantasmatico « organo del linguaggio » ( equivalente darwiniano dell’anima, o dell’inconscio freudiano). Ogni umano, disse, nasce con una « grammatica universale » precotta nei geni e con l’innata capacità d’inanellare pensieri capaci d’estendersi in ogni direzione, spaziale e temporale, all’interno d’una singola frase. Tutte le lingue sono geneticamente, biologicamente « ricorsive » . Be’, tutte tranne una, lo interruppe a quel punto un ex allievo, l’antropologo Daniel Everett, che per anni era vissuto tra i pirahã, una popolazione amazzonica. Costoro non hanno una lingua ricorsiva, disse Everett: la lingua pirahã non contempla passato e futuroma solo « un altro giorno » , non hanno numeri ma solo « poco » e « molto » , le loro frasi non hanno subordinate. Manca la sintassi, mancano le parole, e di conseguenza mancano i concetti, a dimostrazione che il linguaggio non è un « cloud » che si è evoluto in qualche iperspazio darwiniano ma un attrezzo. Tra i pirahã è una clava per arrivare ogni giorno fino a sera; tra noi un iPad che estende i nostri sensi all’infinito. Chomsky, da allora, non nomina più Everett; lo chiama « il ciarlatano » . Ma il 7 maggio del 2014, insieme ad altri sette linguisti della sua scuola, ha dovuto ammettere che « gli interrogativi fondamentali sulle origini e sull’evoluzione della nostra capacità linguistica restano più che mai avvolti nel mistero » . Un anno dopo, ripensandoci, ha deliberato che « 80.000 anni fa un gruppo d’ominidi africani subì un leggero ricablaggio del cervello che consentì le operazioni fondamentali del pensiero » . ( Ricablaggio?) Quanto a Wolfe, ha una sua teoria a proposito delle origini del linguaggio: la mnemotecnica. E se il linguaggio – dice l’autore dell’Acid Test al Rinfresko Elettriko – fosse l’evoluzione di filastrocche tipo « trenta giorni ha settembre » e « su qui e qua l’accento non va » ?