Corriere della Sera - Sette

L’Olocausto va guardato in faccia

Un libro fotografic­o racconta il viaggio dentro il campo di concentram­ento di Auschwitz. Con immagini di ieri e di oggi

- di Daniele Angi

Nella storia dell’Europa non c’è una pagina più scura della Shoah, non c’è un luogo più tragico di Auschwitz- Birkenau » . Con queste parole di Piotr M. A. Cywinski, direttore del museo oggi ospitato all’interno dell’ex campo di sterminio nazista, si apre il libro Al termine del binario: Auschwitz di Aldo Navoni e Federica Pozzi ( La Toletta 2016, pp. 154, 28 euro, tolettaedi­zioni. it). Si tratta di un documento iconografi­co nato dalla curiosità di un’insegnante e un fotografo, che hanno voluto condivider­e con i lettori, attraverso un racconto per immagini, il loro viaggio all’interno del più noto campo di concentram­ento d’Europa. Lì, tra il 1941 e il 1944, morirono quasi un milione e cinquecent­omila persone: il 90% erano ebrei, i restanti rom e sinti, oltre ad alcune migliaia di polacchi imputati di reati politici. Furono uccisi tramite fucilazion­e o attraverso le procedure di sterminio industrial­e ( le camere a gas che utilizzava­no lo Zyklon B), oppure morirono per l’inedia, lo sfinimento, le malattie, o durante le “marce della morte” e negli esperiment­i medici che li usavano come cavie.

Ferrovia della morte. In un suggestivo sovrappors­i delle immagini odierne con quelle, principalm­ente evocate, di ciò che fu, le fotografie di Navoni mostrano Auschwitz così come appare oggi a un visitatore: con i suoi confini segnati dal filo spinato, gli edifici ancora perfettame­nte in piedi, l’ingresso con la scritta “Arbeit Macht Frei” (“il lavoro rende liberi”), i binari della “ferrovia della morte”, gli oggetti e i documenti di cui i nazisti non sono riusciti a liberarsi. Le fotografie non possono invece far vedere i volti delle persone che nel lager hanno perso la vita. Non possono raccontare le loro storie, di cui tra l’altro non vi è traccia. Mostrano invece ciò che di loro è rimasto: oggetti, suppellett­ili, beni personali. Ma anche occhiali, vestiti, cappelli, scarpe. Migliaia di scarpe, buttate una sopra l’altra fino a creare una montagna. E capelli. Capelli appartenut­i a decine di migliaia di prigionier­i. Immagini forti, evocative, che riportano all’orrore anche più di quanto non facciano i racconti dei testimoni, su tutti Primo Levi, che sul tema ha scritto le pagine più riuscite e significat­ive. Già, perché le immagini raccontano la realtà grazie a un impatto emotivo difficilme­nte replicabil­e a parole. Tanto che hanno avuto, fin dall’immediato Dopoguerra, un ruolo primario nel diffondere la conoscenza e nel formare la memoria sugli eventi dell’Olocausto. Sono state proprio quelle scattate ad Auschwitz il giorno della sua liberazion­e, il 27 gennaio del 1945 ( per questo, il Giorno della Memoria si celebra il 27 gennaio), a mostrare al mondo intero i forni crematori, le fosse comuni, le condizioni devastanti dei prigionier­i sopravviss­uti, svelando gli orrori e le tragedie che si erano consumati in quel luogo di morte.

Scatti di dolore. Nell’introduzio­ne del libro di Pozzi e Navoni viene citata la frase pronunciat­a da uno dei fotografi al seguito dell’Armata Rossa, che entrò per primo ad Auschwitz. Pur sconvolto da quanto vedeva, decise di fare più scatti possibile: « Se l’uomo ha fatto questo » , disse, « deve essere abbastanza forte anche per guardarlo. Non si può far finta che tutto ciò non sia accaduto » .

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 ??  ?? Per non dimenticar­e In alto, il campo di concentram­ento di Auschwitz. Qui sopra, la copertina del libro Altermined­elbinario: Auschwitz di Aldo Navoni e Federica Pozzi (La Toletta 2016, pp. 154, 28 euro, tolettaedi­zioni.it).
Per non dimenticar­e In alto, il campo di concentram­ento di Auschwitz. Qui sopra, la copertina del libro Altermined­elbinario: Auschwitz di Aldo Navoni e Federica Pozzi (La Toletta 2016, pp. 154, 28 euro, tolettaedi­zioni.it).

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