L’Olocausto va guardato in faccia
Un libro fotografico racconta il viaggio dentro il campo di concentramento di Auschwitz. Con immagini di ieri e di oggi
Nella storia dell’Europa non c’è una pagina più scura della Shoah, non c’è un luogo più tragico di Auschwitz- Birkenau » . Con queste parole di Piotr M. A. Cywinski, direttore del museo oggi ospitato all’interno dell’ex campo di sterminio nazista, si apre il libro Al termine del binario: Auschwitz di Aldo Navoni e Federica Pozzi ( La Toletta 2016, pp. 154, 28 euro, tolettaedizioni. it). Si tratta di un documento iconografico nato dalla curiosità di un’insegnante e un fotografo, che hanno voluto condividere con i lettori, attraverso un racconto per immagini, il loro viaggio all’interno del più noto campo di concentramento d’Europa. Lì, tra il 1941 e il 1944, morirono quasi un milione e cinquecentomila persone: il 90% erano ebrei, i restanti rom e sinti, oltre ad alcune migliaia di polacchi imputati di reati politici. Furono uccisi tramite fucilazione o attraverso le procedure di sterminio industriale ( le camere a gas che utilizzavano lo Zyklon B), oppure morirono per l’inedia, lo sfinimento, le malattie, o durante le “marce della morte” e negli esperimenti medici che li usavano come cavie.
Ferrovia della morte. In un suggestivo sovrapporsi delle immagini odierne con quelle, principalmente evocate, di ciò che fu, le fotografie di Navoni mostrano Auschwitz così come appare oggi a un visitatore: con i suoi confini segnati dal filo spinato, gli edifici ancora perfettamente in piedi, l’ingresso con la scritta “Arbeit Macht Frei” (“il lavoro rende liberi”), i binari della “ferrovia della morte”, gli oggetti e i documenti di cui i nazisti non sono riusciti a liberarsi. Le fotografie non possono invece far vedere i volti delle persone che nel lager hanno perso la vita. Non possono raccontare le loro storie, di cui tra l’altro non vi è traccia. Mostrano invece ciò che di loro è rimasto: oggetti, suppellettili, beni personali. Ma anche occhiali, vestiti, cappelli, scarpe. Migliaia di scarpe, buttate una sopra l’altra fino a creare una montagna. E capelli. Capelli appartenuti a decine di migliaia di prigionieri. Immagini forti, evocative, che riportano all’orrore anche più di quanto non facciano i racconti dei testimoni, su tutti Primo Levi, che sul tema ha scritto le pagine più riuscite e significative. Già, perché le immagini raccontano la realtà grazie a un impatto emotivo difficilmente replicabile a parole. Tanto che hanno avuto, fin dall’immediato Dopoguerra, un ruolo primario nel diffondere la conoscenza e nel formare la memoria sugli eventi dell’Olocausto. Sono state proprio quelle scattate ad Auschwitz il giorno della sua liberazione, il 27 gennaio del 1945 ( per questo, il Giorno della Memoria si celebra il 27 gennaio), a mostrare al mondo intero i forni crematori, le fosse comuni, le condizioni devastanti dei prigionieri sopravvissuti, svelando gli orrori e le tragedie che si erano consumati in quel luogo di morte.
Scatti di dolore. Nell’introduzione del libro di Pozzi e Navoni viene citata la frase pronunciata da uno dei fotografi al seguito dell’Armata Rossa, che entrò per primo ad Auschwitz. Pur sconvolto da quanto vedeva, decise di fare più scatti possibile: « Se l’uomo ha fatto questo » , disse, « deve essere abbastanza forte anche per guardarlo. Non si può far finta che tutto ciò non sia accaduto » .