Questo Cristo è di Palma il Giovane
Attribuito a Matteo Ponzone, l’opera è evidentemente del suo maestro. Lo scambio, però, è giustificato. Per questi motivi
Non manca di sorprendere, e porta con sé un paradosso, che in un importante museo di Trieste vi siano numerose opere che ancora attendono una corretta attribuzione. Al civico Museo Sartorio i dipinti sono parte integrante di un arredamento ottocentesco che culmina in una mirabile stanza neogotica con notevolissime tele di Michelangelo Rigoletti e Ludovico Lipparini. La famiglia Sartorio, originaria di Sanremo, è documentata a Trieste a partire dal 1775, quando Pietro Sartorio apre in città una filiale di commercio, costruendo per sé e per la moglie una villa trasformata nel museo quando l’ultima erede, la baronessa Anna Segrè Sartorio, la donò alla città con tutto l’arredamento. Le raccolte sono notevoli ed eterogenee, e rispecchiano propriamente il gusto del barone Giuseppe Sartorio al cui intuito si deve, nel 1893, l’acquisto di uno straordinario corpus grafico di Giambattista Tiepolo: 254 fogli di diversi momenti della produzione dell’artista. E probabilmente a lui si devono anche gli acquisti dei dipinti di maggiore interesse non decorativo: penso al Sacrificio di Isacco di Sebastiano Mazzoni, alla Maddalena di Mario Balassi, e ad altre opere notevoli di Simone Pignoni, Antonio Carneo, Marcantonio Franceschini, Giuseppe Bernardino Bison, Ippolito Caffi. Uno fra essi mi sembra particolarmente sorprendente, per l’importanza e per l’evidenza attributiva. È appeso in una camera da letto in posizione inclinata, ed è, a evidenza, un’opera della piena maturità di Jacopo Palma il Giovane. Non vi è dubbio e, come vedremo, vi sono evidenti riscontri con altre opere del pittore. Ma, nelle ultime didascalie ( recenti) e nell’archivio, reca un’attribuzione, curiosa e non impertinente, a Matteo Ponzone, pregevole e originale pittore veneziano che, in qualche modo, fu allievo di Palma il Giovane. E che anzi, in alcuni momenti, come io credo, ne appare anche superiore. Il paradosso è che, in una sezione del museo che ospita le opere provenienti da chiese e musei istriani, riparate durante la guerra nei depositi di palazzo Venezia a Roma, dove io le recuperai per restituirle a Trieste quando ero sottosegretario ai Beni culturali, vi è un’Annunciazione storicamente ritenuta di Palma il Giovane e dame ricondotta a
Matteo Ponzone. Una situazione rovesciata. Nessun dubbio che quel dipinto, di morbida e originariamente appannata fattura, sia del Ponzone, così come non vi è nessun dubbio che il Compianto sul Cristo morto del museo Sartorio ( olio su tela, 102x121 cm.) sia di mano di Palma il Giovane. Con questa doppia sostituzione, la presenza dei due pittori nel museo non muta. C’è semplicemente uno scambio. Già in altre occasioni abbiamo presentato in questa sede opere di Palma il Giovane; e, anche se non possiamo ritenerlo familiare, ne riproponiamo i caratteri dominanti nella matura riflessione su Tiziano, che fu per Palma come un padre. I colori vividissimi, in particolare i prevalenti gialli rossi e blu, hanno la verità e l’umore vitale di Tiziano; e, in particolare, della sua ultima Deposizione, terminata proprio da Palma, ora conservata all’Accademia di Venezia, ma pensata per il suo sepolcro nella chiesa di Santa Maria gloriosa dei Frari. E proprio alla drammatica espressività del corpo deposto dell’ultima opera dì Tiziano, dipinta tra 1575 e 1576, fa ancora riferimento la invenzione armoniosa di Palma, con l’accentuazione del dolore della madre che perde i sensi e che sembra abbandonare il corpo di Cristo ( come se anche lei fosse morta), verso il quale si precipita, per sostenerlo e insieme per pulirlo, la Maddalena che, nel dipinto di Tiziano, è invece in piedi, agitata, urlante. A distanza di più di trent’anni Palma inventa una composizione perfettamente triadica ( con Giuseppe Di Arimatea nell’ombra), accentuando nervosamente il pathos del corpo morto di Cristo. L’opera è una versione di migliore e più vivida qualità del Compianto ( di esecuzione più definita e scolastica) nella pinacoteca Querini Stampalia di Venezia, databile al 1610/ 1615. Con qualche severità Ivanoff e Zampetti affermano che « l’opera presenta il modulo tizianesco illanguidito da svenevolezze manieristiche negli incarnati e nel corpo di Cristo » . Appare evidente che la versione triestina è più libera nell’esecuzione e più dipinta che disegnata, superando quelle supposte “svenevolezze” che appaiono invece declinazioni espressive del dramma. Palma tenta la competizione con la nuova sensibilità barocca e sembra misurarsi con la meravigliosa Pietà di Annibale Carracci ( ora a Capodimonte), con il flessuoso corpo del Cristo. È un tentativo di tradurre in lingua veneziana, e senza tradire Tiziano, il grande modello bolognese, osservato con attenzione e curiosità, a conferma di un rapporto lontano ma reale tra i due pittori e dell’intenzione del più anziano di aggiornarsi sul gusto del più giovane.