Come cambia il Brunei
Era soprannominata “Svizzera del Sudest asiatico” e godeva di un benessere assoluto, ma con l’introduzione della Sharia la monarchia del Borneo ha assunto caratteri assolutistici che preoccupano
Il regno ( islamico) fatato ha perso gran parte della sua magia. Incastonato tra il blu del Mar cinese meridionale e lo smeraldo della giungla del Borneo, uno dei luoghi più pristini del pianeta, il Sultanato del Brunei – nome ufficiale Negara Brunei Darussalam ( Stato del Brunei, dimora della pace) – riflette ancora i raggi del sole equatoriale con i tetti spioventi ricoperti di scaglie dorate delle sue moschee e dei palazzi dei principi della corona, mentre i marmi e gli stucchi dei maestosi interni, i campi da golf perfettamente curati ricordano ai rari visitatori come da Bandar Seri Begawan, la capitale, fino ai tradizionali villaggi di palafitte – i più lindi e colorati della regione – per decenni la ricchezza fluisse copiosa come il petrolio. Quell’oro nero che, con il gas naturale, ha fatto del regno del sultano Hassanal Bolkiah un Paradiso in terra sin dal primo giorno seguito all’indipendenza dalla Gran Bretagna, un afoso 1° gennaio 1984. Ma se le statistiche continuano a dipingere uno scenario di prosperità ( il Pil pro capite, sulla carta, è di quasi 37 mila dollari l’anno), in realtà il piccolo Stato del Sudest asiatico sta vivendo i suoi giorni più difficili per via di una congiuntura che un tempo sarebbe apparsa improbabile: una stretta rabbiosa alle libertà fondamentali unita al crollo del prezzo del greggio, che ha intaccato il bilancio nazionale nel giro di pochi anni. Tutto è cominciato nel 2014, spiega Ahmed Mansoor, pseudonimo utilizzato da un noto giornalista del Brunei per evitare di finire dietro le sbarre, « quando il sultano ha voluto a tutti i costi introdurre la Sharia nel Paese » . Improvvisamente, lapidazione, taglio della mano e frustate entravano nel codice penale
come punizioni per reati quale l’adulterio, il furto, la sodomia. Vero che la scelta per un islam più simile a quello dell’Arabia Saudita rappresentava un problema per i sudditi del sultano, in maggioranza musulmani sunniti ma tradizionalmente tolleranti e capaci di interagire agilmente con le usanze pre- islamiche ( caratteristica anche di Paesi come Malaysia e Indonesia). Tuttavia non è stata la Sharia a intaccare – quanto meno non direttamente – le fondamenta del contratto sociale, di per sé un unicum nella regione. Gli abitanti del Brunei infatti non hanno mai rivendicato diritti o lottato per avere libertà individuali in stile occidentale. Non ne hanno mai avuto bisogno: versione islamicamente corretta e cornucopia da petrodollari, i 400 mila sudditi del Sultanato non hanno mai dovuto pagare per ( quasi) nulla. Istruzione, sanità, alloggi, carburante, cibo: tutto è fornito a prezzo simbolico dallo Stato. In cambio di cosa? « Di una apatia politica pressoché totale » , afferma ancora Ahmed Mansoor in un articolo pubblicato in questi giorni sul magazine in inglese Nikkei Asian Review.
No tax, please. Tra il 2014 e il 2015, tuttavia, i prezzi delle materie prime – il greggio su tutte – sono crollati al punto che il Brunei, il cui Pil è ascritto per il 60% all’esportazione di petrolio e gas naturale
( il governo ne ricava il 90% delle sue entrate), si è trovato in debito di ossigeno, cioè valuta. Risultato: il deficit di bilancio è schizzato verso l’alto, raggiungendo e superando il 17% del budget annuale, in proporzione più alto di quello greco al culmine della crisi. Questo perché, pur di mantenere intatte le garanzie “scandinave” nei confronti dei sudditi, il sultano si è rifiutato di ascoltare i consiglieri che premevano per l’introduzione ( sacrilegio!) di tasse sul reddito e sul commercio. Ecco dunque che cosa ha rarefatto la luce sul piccolo Stato che, visto su una mappa, assomiglia a un pollice e un indice che “pinzano” la regione del Borneo governata dalla Malaysia. Per capire come la congiuntura economica abbia fatto precipitare una realtà in equilibrio precario dobbiamo tornare alla Sharia. Perché se è vero che la sua introduzione non ha suscitato reazioni interne, è invece capitato che la comunità internazionale, gli Stati Uniti in prima fila, abbia protestato con fermezza: i membri del Congresso di Washington sono arrivati al punto di minacciare l’esclusione del Brunei dal Trattato transpacifico ( Tpp). Mentre le organizzazioni per la tutela dei diritti umani pubblicavano rapporti indignati, voci e volti di Hollywood e dei media – come Ellen DeGeneres o Richard Branson – hanno avviato una campagna per il boicottaggio delle catene del lusso legate al sultano. Come gli hotel del Dorchester Group, proprietà del fondo statale nazionale.
Le ire del Palazzo. Qui è franato tutto. Incapace di controllare i media internazionali, Hassanal Bolkiah ha rivolto i suoi strali sulla già timida e tremebonda stampa domestica, spedendo dietro le sbarre chiunque osasse riferirsi in termini meno che entusiastici a proposito della neo introdotta legge islamica. Risultato: giornali chiusi,
giornalisti in prigione. Non che i “dissidenti” dovessero aspettare la Sharia per essere incarcerati: una legge sulla sicurezza nazionale permette di trattenere senza limiti di tempo e senza accuse ufficiali chiunque « attenti all’ordinamento dello Stato » . La stretta peraltro non si è limitata ai giornali ( a novembre è stato chiuso il Brunei Times, i suoi cento reporter licenziati in tronco: avevano rivelato, senza essere autorizzati, che l’Arabia Saudita stava per aumentare il costo del visto per il pellegrinaggio alla Mecca, suscitando la furia dell’ambasciatore di Riyad). Le ire del Palazzo si sono rivolte anche contro tutto ciò che poteva « corrompere » l’armonia islamicamente corretta. Dunque un decreto ha stabilito che ogni celebrazione del Natale fosse bandita dai territori del Sultanato, mentre squadre di poliziotti facevano irruzione nelle case da tè e in qualunque locale pubblico che avesse avuto la malaugurata idea di esporre lucine, stelle, alberi decorati o effigi di Babbo Natale. La Svizzera del Sudest asiatico, il regno della pace: così era definito il piccolo feudo rimasuglio di un’epoca raccontata da Salgari meglio di chiunque altro. Una terra di avventure: pietre preziose che adornavano i turbanti dei sovrani locali; pirati che infestavano i caldi mari equatoriali; donne bellissime che circondavano coraggiosi guerrieri e panciuti maharajah. La Storia è più prosaica. E le vicissitudini del Brunei sembrano un monito per chiunque cerchi la perfezione nell’arte di governo. Da sempre proprietà della casa dei Bolkiah, il Brunei raggiunse il suo apice di impero tra il XV e il XVII secolo, quando il sultano poteva vantare il controllo di un territorio che dal Borneo si estendeva fino alle Filippine. L’incontro con gli europei ( l’Islam si era affermato a partire dal ‘ 500) innesca il declino mentre la rivalità tra spagnoli, olandesi e britannici si risol-
vono, dopo ripetuti conflitti, a favore di questi ultimi. Protettorato di Londra fino a soli 32 anni fa, il Brunei – governato dal sultano secondo principi secolari – ha cercato di cristallizzare il presente in una mitica età dell’oro, edificando un Paese dove i cittadini erano accuditi dalla culla alla tomba e il crimine assente. Un Paese, l’unico nell’Asia orientale, che si è deciso infine a introdurre l’ortodossia della legge islamica ( processo concluso nel 2016) come garanzia di « moralità e rispetto della religione nazionale » , seguita dai due terzi della popolazione.
Scandali di corte. Peccato che la fiaba del sultano più ricco, generoso e saggio del mondo sia naufragata nel giro di poco. E non solo per le critiche dell’Occidente alle norme liberticide. Né per la sorte dei media, che certo non hanno mai potuto davvero grattare la superficie di un’illusione potente ma non in grado di sopraffare lo spirito dei tempi. E tuttavia: come fermare le notizie nell’era di Internet? Ecco dunque che gli scandali della famiglia hanno potuto circolare di computer in computer, nel silenzio generale. E il principe Jefri, fratello di Hassanal, si è ritrovato al centro di chiacchiere di palazzo capaci di far arrossire le prime, seconde, terze e quarte mogli dei nobili parenti. Come mettere a tacere l’appropriazione di 15 miliardi di dollari ( sono l’Economist e il NewYork Times ad averlo rivelato), alla fine degli anni 90, dal fondo nazionale di investimenti quando Jefri era ministro delle Finanze? E soprattutto, come evitare commenti sull’utilizzo di quel patrimonio, speso in auto di lusso, nove aerei ( compreso un Boeing 747), ville, gioielli, dipinti ( di Renoir, Manet, Degas) e, soprattutto: donne. Che il principe portava in giro per il mondo sul suo lussuoso yacht chiamato “Tits” ( tette), dove le lance di salvataggio si chiamano “Capezzolo 1” e “Capezzolo 2”. E che talvolta si dilettava a far riprodurre, da selezionati artisti,
in forma di statue a grandezza naturale da un milione di dollari l’una, mentre si accoppiavano con lui, sorta di Jeff Koons/ Rocco Siffredi le cui gesta potevano – se mostrate in patria – portare direttamente al patibolo. Ma per il fratello del sultano è arrivato il perdono, nella convinzione che censura, silenzio ( e paura) riuscissero a proteggere le mura di cristallo del regno. Così non è stato. Un po’ perché il mondo è cambiato, e l’era della globalità dell’informazione ha superato la capacità degli Stati di arginare le notizie scomode. Un po’ perché le ristrettezze economiche ( si intenda: relative) sono in grado di far saltare gli equilibri garantiti. Di certo c’è che negli ultimi tre anni, le entrate del governo sono crollate del 70% e che il sultano ha dovuto “accettare” un investimento da 6 miliardi di dollari in una raffineria da parte della Cina, cosa che ha comportato il silenzio assoluto di fronte all’espansione della Repubblica Popolare nel Mar cinese meridionale, di fronte alle coste del Sultanato, in acque pur rivendicate da Bandar Seri Begawan. Lo scintillio di strade e alberghi, il lusso ostentato da dame velate e ricoperte di ori non bastano più a confondere la vista. Nel Brunei gli operai vengono licenziati mentre la politica di diversificazione dell’economia – per affrancarsi dalla dipendenza dal petrolio – è fallita per la concorrenza dei vicini, capaci comunque di mantenere tariffe inferiori, grazie soprattutto al minimo costo del lavoro. A chi gli chiede come sarà il futuro, Ahmed Mansoor risponde: « Il Brunei può scegliere tra due strade opposte: l’apertura al mondo o la censura sempre più stretta. Temo che la scelta sia stata fatta. E non per il meglio » .