Il ct del rugby: «Con me l’Italia diverrà una potenza»
Irlandese di nascita, commissario tecnico dallo scorso maggio, ha già battuto il Sudafrica (è la prima volta nella storia degli azzurri). E ora prepara il debutto nel “6 Nazioni”
Esistono tanti tipi di pazzia. C’è chi si sente Napoleone, chi pretende di governare Roma. E poi c’è chi vuole trasformare l’Italia in una potenza del rugby. Come Conor O’Shea, irlandese di Limerick, classe 1970, bandiera del Leinster, ex nazionale dei Verdi d’Irlanda e a lungo allenatore a Londra, con Irish e Harlequins, nonché direttore delle accademie giovanili della Federazione inglese. Dallo scorso maggio è il commissario tecnico dell’Italia, primo irlandese dopo tanti francesi, neozelandesi e sudafricani. Il 5 febbraio, con la sfida al Galles all’Olimpico di Roma, partirà il nostro Sei Nazioni: cinque partite da brivido in sette settimane, con avversari pronti, come sempre, a sbranarci. L’Italia ha vinto solo 12 delle 85 partite giocate in 17 edizioni del Torneo ( con un pareggio). Eppure stavolta, sperano i tifosi, gli azzurri avranno un’arma in più: l’irlandese dagli occhi di ghiaccio. Qualcuno ha già scommesso: sarà una rivoluzione, sarà il Mourinho del nostro rugby. Per i giornali britannici O’Shea è un « visionario » , un leader carismatico, ossessionato dalla cura dei particolari e dalla motivazione del gruppo. Che sia un predestinato lo dice la sua storia: prese la guida degli Harlequins all’indomani di uno scandalo che li aveva quasi del tutto annientati. Non è un caso se li ha condotti ai maggiori successi della loro storia ultrasecolare: Challenge Cup ( una sorta di Europa League del mondo ovale) nel 2011 e Premiership inglese l’anno dopo. Insomma, uno che cava il sangue anche dalle rape. Identikit perfetto per chi è stato chiamato a Roma per l’impresa delle imprese: togliere dall’Italia del rugby l’etichetta dell’eterna incompiuta, dell’ospite solo tollerato, mai del tutto accettato, al tavolo delle Grandi. E così, tanto per tener fede alla nomea, gli sono bastati pochi mesi di lavoro per centrare, nello scorso novembre, la vittoria più clamorosa di tutta la storia azzurra: quella contro il Sudafrica, battuto a Firenze in una sfida epica. « Nessuna illusione, sappiamo che il lavoro e le sfide che ci attendono sono difficili » , ci spiega. « La vittoria con il Sudafrica sarà un bel ricordo tra trenta, quarant’anni, ma sbaglieremmo a considerarlo un punto di arrivo » . Fatalmente, una settimana dopo il successo con gli Springboks è arrivata la sconfitta ( disarmante) con Tonga: « Ci sono rimasto male » , dice, « ma vincere non è l’unica cosa che conta. Dalle sconfitte si impara sempre tanto » . Della serie, per i miracoli ci stiamo attrezzando. Ma
O’Shea non sembra proprio un tipo che ama scherzare, quando si parla di lavoro. E quando gli si chiede se i suoi amici l’hanno preso per pazzo quando ha deciso di sedersi sulla panchina dell’Italia risponde serio: « Quando ho firmato con la Fir » , replica, « ero certo che il rugby italiano avesse un grande potenziale. Dopo i primi sei mesi da ct, credo che ci siano molte cose da migliorare, ma un potenziale anche superiore a quello che mi aspettavo » .
Nei panni del demiurgo. Il problema, in effetti, sembra essere proprio quello: le aspettative di chi vive di entusiasmi. Del resto di sport parliamo, mica di politica. Battuto il Sudafrica si potranno battere tutte, o no? Così, a una settimana dall’inizio del diciottesimo Sei Nazioni della storia – la versione moderna del Torneo più an- tico del mondo, che le Home Unions ( Inghilterra, Irlanda, Galles e Scozia) giocano dal 1883 – c’è tutta una pletora di ottimisti convinti che l’Italia possa finalmente recitare un ruolo da protagonista. Sono gli stessi pronti a spararti alle spalle alla prima sconfitta e a rievocare le solite deprimenti etichette, da “sconfitta onorevole” in giù. Non sarà facile vincere una partita in questa edizione: l’Inghilterra viene da una serie di vittorie impressionanti, l’Irlanda a novembre ha battuto gli All Blacks per la prima volta nella storia, il Galles gioca a velocità supersoniche, la Francia, infarcita com’è di giganti del Pacifico, sembra ancora più solida, e la Scozia si è rimessa a giocare con lo spirito degli Highlander. L’irlandese non si scompone. Non promette vittorie clamorose, ma pretende di cancellare umiliazioni nel gioco e nel punteg- gio: « So benissimo che il mio lavoro verrà giudicato in base ai risultati, ma alla nostra squadra chiederò come sempre di concentrarsi sulla performance. Manteniamo alto il nostro livello di performance, come abbiamo fatto per buona parte dei test di novembre, e potremo essere una squadra difficile da affrontare per chiunque. È uno dei nostri obiettivi » . O’Shea gioca a vestire i panni del demiurgo, dello scultore che intravede che sotto le sue mani qualcosa prende forma. Vuole cambiare la mentalità di tutto il rugby italiano: non solo in Nazionale, ma anche club, franchigie, accademie e persino i modi di preparare i ragazzini nelle giovanili e nel minirugby. Una rivoluzione. « Si comincia dalla testa » , ama ripetere. E ha già un mantra: quello della « consistenza » , la capacità di essere sempre all’altezza delle situazioni di gioco ( tante e complesse) richieste dal rugby ipermuscolare dei nostri giorni: « Trovare consistenza è sicuramente uno degli obiettivi che ci siamo prefissati. Quando si gioca contro l’Italia si sa che, a un certo punto, cederà: le partite di novembre hanno fatto vedere che da questo punto di vista abbiamo iniziato a cambiare » . Una squadra che lotti 80 minuti, che non arretri, ormai stremata, quando gli altri accelerano per dare la botta finale. Si comincia da questo. I risultati verranno poi. Ma non c’è solo filosofia. C’è soprattutto lavoro duro e meticoloso. O’Shea ha scelto uno staff internazionale di categoria
«Sarò io il ct con cui l’Italia batterà gli All Blacks? Lo spero, ma credo di no. Però succederà e io sarò stato parte di quel percorso»
per provare a cambiare il Dna azzurro: i sudafricani Venter e Goosen, l’inglese Mike Catt, l’ex azzurro De Carli. Persone che lo aiutano a spaccare il capello in quattro, a programmare la crescita dei giocatori, a colmare le loro lacune. La nazionale di O’Shea è un immenso work in progress in cui veterani e belle speranze vanno a braccetto. A cominciare dal capitano, Sergio Parisse, 33 anni e più di 120 presenze sulle spalle. O’Shea aveva capito che il numero 8 era pronto a mollare, a rinunciare all’azzurro dopo qualche delusione di troppo. Allora prima dell’estate è andato a Parigi, dove il gigante abruzzese gioca da una vita, a prendere un caffè e a dirgli che no, senza di lui, l’Italia di O’Shea non sarebbe mai nata. E cos’altro? Ah, sì. Che a novembre, insieme, avrebbero battuto il Sudafrica. Una follia, a quei tempi.
Una scoperta a ogni angolo. « Non ho fatto fatica a convincerlo a rimanere con noi » , spiega l’irlandese » , Sergio è un atleta e una persona straordinaria. Vuole vincere ora, come altri veterani. Come Ghiraldini, Cittadini, Zanni, Favaro. Ma vuole soprattutto lasciare un segno sul rugby italiano che verrà. Sono entusiasta di lavorare con lui » . Così come tanti giovani che giocano a fianco di una leggenda, a cominciare da Canna, Bronzini, lo stesso Gori, ancora giovane e già veterano, Campagnaro, Esposito, Panico, Geca… La lista è lunga. Ma qualcosa si muove anche dietro le prime scelte, segno che – a 18 anni dall’ingresso nel 6 Nazioni – i vivai stanno finalmente sfornando promesse e anche qualcosa in più. Parola di O’Shea: « C’è molto, molto talento in Italia. Sarebbe riduttivo concentrarsi su tre giocatori, ci sono tanti ragazzi che oggi non sono ancora in Nazionale ma che hanno tutto per arrivare velocemente. Penso a Sperandio, Riccioni, Pettinelli, Minozzi, altri ancora » . Tanto talento e tante scuole
rugby. Nelle grandi città i club ovali fanno ormai concorrenza a quelli calcistici: « Guardi, sono venuto per aiutare il rugby italiano ad esprimere il proprio potenziale. Di questo potenziale fanno parte le migliaia di bambini che ho visto affollare i campi dei club, grandi e piccoli. Mi creda, ci sono strutture e passione che nulla hanno da invidiare alle nostre avversarie del 6 Nazioni. Continuiamo a lavorare, e questa passione continuerà ad alimentarsi da sola » . La passione italiana l’ha contagiato in fretta. O’Shea vive sulle rive del lago di Garda, a Sirmione, con la moglie e le due figlie, che studiano a Verona. Il coach si è messo a studiare la nostra lingua: « Vivere il Paese in cui si lavora per me era fondamentale: per me, mia moglie e le nostre bambine è una grande avventura. Certo, le ragazze parlano già italiano molto meglio di quanto faccia io, essere corretto da bambine di dieci e sette anni può essere frustrante! » . Non che sia una novità, per lui, studiare: quando ancora giocava passava le estati negli Stati Uniti a studiare “sport management”. Adesso, quando può gira l’Italia in bicicletta, per scoprire a ogni curva quanto è bella e seducente: « Sapevo di trasferire la mia famiglia in un Paese meraviglioso. Ma sto scoprendo più di quanto mi aspettassi, è fantastico » . Da buon britannico, il senso pratico non gli fa difetto. Ci sono cose che piacciono: « I luoghi, città meravigliose, persone cordiali » . Altre decisamente meno: « Fatico un po’ con la burocrazia, che può essere davvero complicata » . Insomma, O’Shea è un uomo venuto per restare. Più che un manager, un uomo della terra che pianta un seme e che vuole vederlo germogliare: « Non sono venuto promettendo vittorie nel 6 Nazioni o una finale alla Rugby World Cup, sono venuto per aiutare il rugby italiano a esprimere le proprie potenzialità, a diventare una grande nazione di rugby. Sarò io il ct con cui l’Italia batterà gli All Blacks? Lo spero, ma credo di no. Ma quel giorno insieme a tanti giocatori di oggi saprò di essere stato parte di quel percorso, che l’Irlanda ha impiegato 116 anni a completare. Ecco, questa è la nostra missione. Un progetto a lungo termine, tracciare la rotta per chi verrà dopo. Perché sulla panchina della Nazionale, un giorno non lontano, dovrà esserci un tecnico italiano » .