Finestra sul cortile
Mettere in sicurezza queste terre costerebbe 5 miliardi all’anno per molti anni. Noi spendiamo il doppio per dare un bonus di 80 euro a chi un lavoro ce l’ha. Vogliamo fare almeno metà e metà?
Se non ci fosse l’Abruzzo, non ci sarebbe stato Benedetto Croce. O Gabriele d’Annunzio. O Ignazio Silone. Oppure Ovidio, uno dei più grandi poeti latini. Potrei continuare, e potrei anche aggiungere che ovviamente tutte le regioni d’Italia possono vantare figli altrettanto illustri, perché dovunque in Italia è fiorito il talento e la cultura nei secoli. Però l’Abruzzo è speciale. Almeno così lo sento io dopo la gragnuola di colpi della sorte che ha dovuto subire la sua gente in pochi mesi. Ho riletto perciò le due magnifiche monografie che Benedetto Croce dedicò a due paeselli della sua regione, Montenerodomo e Pescasseroli, i luoghi che avevano dato i natali al padre e alla madre. Due piccoli gioielli di storiografia, poi inseriti in appendice alla Storia del Regno di Napoli, che trasudano però anche amore per la gente di questi borghi e rispetto per la natura maestosa e ostile che li ospita. Come si sa, il grande filosofo nacque, anche se per caso, proprio a Pescasseroli nel 1866, nella casa della famiglia materna, i Sipari, dove la madre si era riparata in gravidanza durante un’epidemia di colera a Napoli. Raccontando delle sue famiglie d’origine, Croce ci racconta anche un pezzo di storia del nostro Mezzogiorno e i processi dai quali, come scrive, “doveva in ultimo sorgere la differenziazione sociale”, ovvero la formazione della ricchezza e di una borghesia. Fu infatti l’abolizione del feudo, dovuta ai francesi, che liberò le energie mercantili degli “armentari”, le famiglie di pastori che possedevano grandi greggi, i quali si arricchirono sulla via dei “tratturi”, i sentieri della transumanza lungo i quali le pecore venivano portate d’inverno a pascolare nei campi del Tavoliere di Puglia. I Croce e i Sipari, come altre famiglie abruzzesi, investirono il patrimonio accumulato acquistando i latifondi pugliesi, quando con l’Unità il Regno d’Italia mise all’asta quei pascoli prima demaniali, e così si trasformarono in un importante nucleo di borghesia imprenditrice che trasferì a Napoli le proprie sostanze e le proprie dimore. Una storia, come ce ne sono state tante nella vicenda del nostro Paese, di estrazione di risorse da un territorio, che a Croce consentì, come lui stesso scrisse, di fare nella vita la “professione del proprietario”. In Abruzzo rimasero gli altri, quelli ai quali l’Unità d’Italia non portò altrettanta fortuna.
QUESTIONE DI PRIORITÀ. È istruttivo ripensare a queste vicende nei giorni in cui l’Abruzzo ha bisogno che la comunità nazionale gli restituisca un po’ di risorse, destinandole alla ricostruzione di quanto è caduto o è cadente, di quanto è sparito o inservibile. Il tutto procede con una lentezza esasperante. Si calcola che al primo anniversario del terremoto di agosto non saranno state ancora completate neanche le verifiche sugli edifici lesionati. Per giunta, nei giorni della grande nevicata di gennaio il sistema viario ha ceduto, centinaia di migliaia di persone sono rimaste senza energia elettrica e telefono per giorni, come in una sperduta periferia del mondo, come se non si trovassero nel cuore della ricca Europa. Bisogna dirci con franchezza che sull’intero Appennino vivono dieci milioni di italiani in condizioni diverse da quelle dei loro compatrioti, esposti a veri e propri fallimenti della modernità, gente che ha scelto di vivere lì, e che se andasse via lascerebbe morire un pezzo d’Italia prezioso e unico. E che sa darsi da fare, per esempio nel turismo, mettendo in piedi in località come Roccaraso stazioni invernali di eccellenza, della cui sicurezza solo la superficialità di qualche opinionista da talk show ha potuto dubitare, arrecando un grave danno alla stagione, come se ce ne fosse stato bisogno. È una questione di priorità: siamo disposti a darla all’opera di messa in sicurezza di queste terre? Dicono che farlo bene costerebbe cinque miliardi all’anno per molti anni. Ma noi spendiamo il doppio, dieci miliardi all’anno, per dare un bonus di 80 euro a chi un lavoro ce l’ha, senza effetti rilevanti sui consumi e sulla crescita. Vogliamo fare metà e metà, per lo meno?