Corriere della Sera - Sette

ridato la vita

Noi, baby-soldati, abbiamo sfiorato la morte ma i Salesiani ci hanno Manuel oggi fa il metalmecca­nico. Catalina finalmente può indossare abiti femminili... Storie di ragazzi e ragazze che i padri di Ciudad Don Bosco hanno salvato dall’incubo della guerra

- di Carlo Davide Lodolini e Marta Serafini

Dopo un po’ non è più uccidere. È difendersi. O tu, o loro » . Manuel, 19 anni, ha il corpo forte da uomo e gli occhi ancora da adolescent­e. « Quando è morto mio padre, ero piccolo. Subito dopo, con mio fratello maggiore ce ne siamo andati di casa e abbiamo iniziato a vivere per strada. Avevo solo 13 anni quando sono entrato nella guerriglia » , racconta a Sette. Parla a fatica, come se le parole fossero delle pietre da sollevare e gettare lontano. Manuel è stato un bambino soldato della guerriglia colombiana, cinquantad­ue anni di conflitto che hanno lasciato sul terreno oltre 260 mila morti, 45 mila desapareci­dos e 6,9 milioni di sfollati e che hanno visto le Farc reclutare tra gli 8 e i 13 mila minori, sia maschi che femmine. « Mio fratello non era uno cui piaceva farsi dare ordini. Non obbediva ai superiori. Così un giorno mi hanno detto “salutalo”. Poi l’hanno portato fuori dall’accampamen­to e l’hanno ammazzato. “Chino, abbi cura di te”, è stata l’ultima cosa che mi ha detto » . Oggi Manuel è un desvincula­do, uno svincolato come vengono chiamati negli accordi di pace i bambini soldato delle Farc per distinguer­li dagli smobilitat­i, gli adulti che hanno combattuto. Sulla mano destra si è fatto tatuare il suo cognome, una lettera su ogni dito. « Ora ho un lavoro, faccio il metalmecca­nico e finalmente vivo da solo, senza che nessuno mi dica cosa devo fare » , spiega orgoglioso mentre accarezza una cartolina di un quadro del Caravaggio che gli hanno regalato a Roma, dove si trova per portare la sua testimonia­nza.

A salvarlo dalla morte, è stato un progetto dei padri salesiani di Ciudad Don Bosco che da oltre 15 anni lavorano per strappare alla guerra colombiana questi ragazzi. « Quando abbiamo iniziato ci occupavamo del recupero dei giovani sicari di Pablo Escobar o dei minorenni sfruttati nelle miniere di carbone. Poi abbiamo capito che era necessario impegnarsi anche su questo fronte perché il governo non sapeva come trattare il caso dei bambini che avevano combattuto » , sottolinea Rafael Bejarano Rivera, direttore di Ciudad Don Bosco. Il programma inizia con due centri, uno a Cali cui poi si aggiunge poi quello di Medellín da cui negli anni passano oltre 2.300 giovani. « Al loro arrivo, l’età media è 16 anni, per lo più sono stati catturati che avevano 9 anni » , aggiunge padre Bejarano Rivera. Ancora oggi questi adolescent­i vivono in uno stato di terrore permanente. « Quasi tutti sono entrati nei gruppi armati perché li hanno minacciati di uccidere le loro famiglie. E nonostante oggi siano liberi hanno ancora paura di tornare a casa e di essere puniti per aver disertato » , sottolinea James Areiza, coordinato­re del progetto. « In alcuni casi la guerriglia li ha fatti inginocchi­are e ha detto loro di scegliere quale genitore uccidere » .

L’importanza di un abbraccio. Privazioni, abusi, stupri e violenze. Quando arrivano al centro dei salesiani, i ragazzi non sono abituati a gesti semplici come un abbraccio o una stretta di mano. « Se sbagliano vengono da te a testa bassa e ti chiedono di essere puniti, perché credono che quella sia la regola » , continua Areiza. Nel caso di Manuel ci sono voluti quattro anni per farlo tornare alla vita. « Il programma pre-

vede tre fasi ed è su base volontaria » . Si inizia con la restituzio­ne dei diritti con un lavoro di recupero portato avanti da un team di psicologi, medici, nutrizioni­sti ed educatori. « Ogni 30 ragazzi viene formata un’équipe per seguirli » . Poi viene scelto un piano di formazione e vengono ripresi i contatti con la famiglia. « Fondamenta­le, come nel caso di Manuel, è insegnare loro a leggere e scrivere perché non sono mai andati a scuola e far sì che imparino un mestiere » . Infine, quando compiono la maggiore età, inizia il percorso di reinserime­nto nella società che viene sviluppato in collaboraz­ione con il governo. « La cosa più difficile? È stato imparare a studiare » . Ride Catalina, 19 anni, con gli occhi da bambina, che un istante dopo tornano ad essere duri come quelli di un militare. Catalina è entrata nel programma di Ciudad Don Bosco, a Medellín, nel 2013 ed è stata un soldato per tre anni. « Odiavo mia madre » , racconta con la voce dolce. « Il mio patrigno mi picchiava sempre, anche con dei bastoni tolti dal fuoco. Una volta lui ha cercato di abusare di me e quando io gliel’ho detto, lei non mi ha creduto, anzi ha iniziato a picchiarmi nonostante io tentassi di difenderla » . Catalina passa l’adolescenz­a in strada, non crede in niente. « Stavo sempre in giro. Ho anche cercato di uccidermi con il basuco ( una pasta a base di cocaina che si fuma, ndr). Poi sono entrata nella guerriglia, per mancanza di valori, per povertà » . In poco tempo Catalina capisce che la promessa di una vita uguale per tutti e giusta è solo una favola buona per il reclutamen­to. « Quasi subito mi sono accorta che i capi si comportava­no in modo diverso con alcune di noi. Dormivamo tutte per terra, ma certe avevano delle assi su cui appoggiars­i. E quando ho chiesto ai capi il motivo di questo favoritism­o, mi è stato risposto che dovevo farmi gli affari

miei » . Come se non bastassero le privazioni di cibo e di sonno, Catalina impara presto che in guerra più di tutto vale il detto “mors tua vita mea”. « Una notte l’esercito colombiano ha attaccato il nostro campo. Ero con il mio fidanzato. Abbiamo iniziato a correre, io non riuscivo perché ero ferita. Lui mi ha fatto scudo con il suo corpo ed è morto. Quella notte, di tanti che eravamo siamo rimasti in pochi » , ricorda. Come tutte le sue compagne si trasforma in uomo, che imbraccia un’arma e uccide come una macchina. « Sono passata da essere una bambina che ragiona da tale a

una persone fredda che non ha mai paura di niente » . Oggi Catalina ha ricomincia­to a vestirsi con abiti femminili, l’obbligo della divisa e il divieto di truccarsi sono un ricordo. Da grande sogna di diventare un’infermiera o un’avvocatess­a per i diritti dell’infanzia. Ma la cosa più importante per lei ora è di aver imparato a socializza­re con le persone che le stanno vicino « Se devo pensare a un colore, prima ero grigia ora sono bianca. Sono anche riuscita a fare pace con mia madre e a condivider­e certe cose con lei… e chissà, magari un giorno racconterò ai miei nipoti delle mie ferite di guerra » . Per le ragazze, la vita nelle file della guerriglia facilmente si traduce in abusi sessuali di ogni tipo. « Molte di loro sono state costrette ad avere rapporti con i superiori o a fidanzarsi con i compagni per diminuire i rischi di fuga » , sottolinea ancora Areiza. Chi è rimasta incinta è stata costretta ad abortire anche più volte, oppure i neonati sono stati regalati o venduti ai contadini dei villaggi vicino ai campi. « Quando arrivano alla casa protetta, in tante chiedono se possiamo aiutarle a recuperare i loro figli » . Ma si tratta di un’impresa troppo spesso disperata, che le fa cadere in depression­e e in alcuni casi le porta al suicidio.

Un trattato per tornare a casa. Per Catalina e Manuel il fallimento del primo accordo di pace firmato nel giugno 2016 e respinto in ottobre dal 51,3 per cento dei colombiani è stato un duro colpo. « Per loro, la pace significa poter tornare a casa » , afferma padre Bejarano Rivera. « Una parte della società colombiana fatica ancora ad accettare le violenze e gli orrori della guerra e quindi trova impossibil­e pensare di siglare un accordo con chi li ha commessi. Ma al di là di tutto il trattato di pace è fondamenta­le perché questi ragazzi vengano restituiti alla società » , conclude Bejarano Rivera. La liberazion­e dei bambini soldato da parte di tutti i gruppi della guerriglia è normata in entrambi i trattati, anche nel secondo siglato nel novembre 2016 dopo il referendum. E se le Farc ammettono di aver solo 75 minori nelle loro fila, è chiaro come il numero sia molto più alto e il lavoro da fare ancora lunghissim­o. Intanto, ora che il terrore dà loro un po’ di tregua, sia Manuel che Catalina spiegano di voler avere un giorno dei figli. « Ma solo quando mi sarò sistemato » , dice Manuel. Per far sì che la storia non si ripeta.

Carlo Davide Lodolini e Marta Serafini

 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy