Io che ho immortalato Hollywood in smoking oggi fotograferei l’amore
L’artista “beatnik” mette a nudo le sue felici contraddizioni. E dice: «Ho messo nel mirino l’alta società ma avevo Kerouac nel cuore»
Per entrare nell’orbita di Larry Fink bisogna coglierne il ritmo. Del jazz che improvvisa al pianoforte ignorando le regole del pentagramma; del blues che sprigiona dall’armonica che si tiene sempre in tasca. « Musica e fotografia si assomigliano: quando improvvisi individui un accordo e poi ci giri intorno fino a quando trovi la melodia. In pratica, in entrambi i casi, partendo da un dettaglio lavori per individuare una struttura e risolvere una tensione. Oh, ma se sapessi impormi una disciplina, suonerei Bach e andrei in paradiso » . Dal 1974 vive con la sua terza moglie, la scultrice Martha Posner, a Martins Creek, Pennsylvania, un posto sperduto dove guarda caso nel 1939 Alexander Kerensky, il primo ministro russo travolto dalla Rivoluzione d’Ottobre, sposò la giornalista australiana Lydia Ellen Tritton. Un ritiro naturale per chi vuole tutelare una sensibilità che poco si concilia col mondo esterno: « Cosa ne pensi dell’America che diventa fascista? » , chiede. Nato nel 1941 a Long Island, si forma nel solco tracciato dalla beat generation, quelli della seconda generazione come li chiama lui, eredi spirituali del verbo enunciato da Jack Kerouac dieci anni prima: « Era mio destino entrare in contatto con loro: per la mia propensione alle droghe, alla rabbia e alla poesia. Sono stato persino arrestato sul confine col Messico per contrabbando di marjuana. Non ero un delinquente o un anarchico: in realtà ero solo un ragazzo di 17 anni a cui piaceva la fotografia, il jazz e il fumo. Ma mi costò molto: mi misero in galera per un po’ di tempo e per cinque anni una volta al mese dovevo presentarmi alle autorità. Le foto che ho selezionato per il libro The Beats sono il risultato di 4 mesi di viaggio nel mio mondo nel 1958, mentre pattinavo sul ghiaccio sottile dell’età adulta » . Le sue fotografie come il suo fraseggio assomigliano a dei versi beat che mette al servizio delle battaglie per i diritti civili, delle manifestazioni contro la guerra del Vietnam, dello sdegno verso i
Musica e fotografia si assomigliano: individui un accordo e poi ci giri intorno fino a quando scovi la melodia. In entrambi i casi, parti da un dettaglio e crei una struttura che risolva la tensione
comportamenti definiti sommariamente “borghesi”. Situazioni che nel volume Fink on Warhol: New York Photographs of the 1960s ( Damiani editore) si alternano ai ritratti degli esponenti più celebri della Factory: Lou Reed, i Velvet Underground, Edie Sedgwick, Susanna Campbell, Gerard Malanga e Warhol stesso. « Ora si parla di Andy come un uomo del Rinascimento, scrive Fink nella prefazione. Sono basito… il Rinascimento che ha sponsorizzato era solo marketing » . Nella vita reale, quella che scorre fuori dall’aura di “Andy”, chi brilla di luce propria ( Lou Reed, Gerard Malanga) illumina il proprio cammino in autonomia; le star per un giorno dei film di Warhol, invece, svaniscono nel nulla.
La risposta alla banalità del male. Alcune letteralmente, come Ingrid Superstar che uscita a prendere le sigarette nel 1986 non fa ritorno a casa ( il suo corpo non fu mai trovato). Altre, come Ultra Violet, scivolano nell’anonimato. Edie Sedgwick, l’icona chic del gruppo, si dissolve nel 1971 all’età di 28 anni stravolta dai barbiturici e dalle anfetamine. L’indolenza dell’avanguardia artistica della Factory, che si culla nella propria rappresentazione fino al nichilismo, è agli antipodi dello spirito che anima le masse di giovani che scendono in piazza. « Sono cresciuto in una famiglia marxista. Mia madre era membro del partito che a un certo punto lasciò perché troppo puritano: lei era un’attivista solerte, ma le piacevano i profumi, i party, le pellicce… diceva sempre: “Left must not be left behind ( la sinistra non deve rimanere indietro, ndr.)”. I tempi cambiano, i costumi pure e anch’io nella mia vita, mentre professavo i valori in cui credo tuttora, frequentavo l’alta società, i party di Hollywood che ho fotografato per tanti anni. In quelle occasioni mi mettevo lo smoking ma mi piaceva mangiare con le mani, al tavolo con gli inservienti. Il segreto del mio sorriso, che mi fece notare la direttrice di Vogue Francia, era proprio questo: vivevo serenamente le mie contraddizioni » . Queste fotografie nate da una decennale collaborazione con Vanity Fair confluirono in raccolte importanti tra cui Social Graces e, più ancora di quelle nate nel periodo beat, costituirono il suo marchio di fabbrica rendendolo riconoscibile. « La fotografia come ogni altra lingua si presta a varie soluzioni. Per quanto mi riguarda è un mezzo per riparare le crepe che si aprono nella società. Noi ci sarà mai la vittoria del bene o del male. Siamo un miscuglio di entrambi. Ma in un momento come questo in cui il male è dappertutto, fotograferei l’amore. Sì, fotograferei l’amore » .