Assassina oeroina? Ecco la vera storia di Maria Pasquinelli la pasionaria dell’Istria di Valeria Palumbo
70 anni fa un’insegnante italiana uccise a Pola un generale inglese, forse sperando di scatenare una rivolta anti-titina e per protesta contro la decisione di assegnare la città alla Jugoslavia
Sono scesa dall’auto. Ho appena fatto in tempo ad affacciarmi oltre il filo spinato che delimita la spiaggia di Vergarolla, a Pola, che si è fermata una camionetta della polizia: « Che sta facendo signora? » . « Guardo la spiaggia » ( penso: meno male che il fotografo non ha fatto in tempo a uscire dalla macchina). « Non c’è alcuna spiaggia qui » , fa il poliziotto. Io gli indico la striscia di sabbia e il mare, lui sorride. Ho capito, gli faccio cenno: me ne vado. Lui, con una frase ascoltata da qualche turista italiano, mi saluta soddisfatto: « Se vedemo, allora » . Oltre 70 anni dopo la strage, del 18 agosto 1946, la spiaggia di Vergarolla non esiste. O meglio: è territorio militare, così i croati tengono alla larga tutti. Perché? Loro, con quella strage, non hanno molto a che fare. Anche se fossero stati i titini a piazzare il detonatore che fece esplodere le munizioni ammassate sulla riva mentre si teneva una gara di nuoto e che uccise 65 persone, ne ferì 50 e fece cinque dispersi, e anche se l’obiettivo fosse stato spaventare gli italiani e accelerarne l’esodo, oggi, a Pola, degli abitanti di allora non resta quasi nessuno. In quei sei mesi decisivi che vanno dal 18 agosto al 10 febbraio 1947, quando la maestra fascista Maria Pasquinelli uccise il brigadiere generale britannico Robert W. M. De Winton, comandante delle truppe alleate a Pola, la cittadina istriana, di fatto, si svuotò. Gran parte della popolazione era, in effetti, italiana o parlante italiano ( o meglio istrio- veneto, il dialetto adottato dalla marina asburgica): il 91% dei 49 mila abitanti circa. Benché molti fossero arrivati sotto la dominazione fascista, gli “italiani” erano lì da sempre. Nel museo archeologico di Lubiana, la capitale della vicina Slovenia, oggi un curioso pannello avverte che la città è rimasta “romana” per secoli dopo la caduta dell’Impero. Le eredità culturali sono sempre complesse. In ogni caso Pola, a differenza dell’Istria, occupata subito dalle forze jugoslave, era rimasta sotto l’occupazione alleata, come enclave della cosiddetta zona A di cui facevano parte Trieste e Gorizia. Con la firma del Trattato di pace del 10 febbraio 1947, il suo destino fu deciso. Ma a quel punto l’esodo era già molto avanti ( pochi ricordano però che i profughi continuarono a lasciare la Jugoslavia fino al 1960, anche perché la sorte di Trieste e Capodistria fu decisa nel 1954 e il trattato definitivo è del 1975). Eppure fu proprio allora, il giorno stesso della firma del Trattato di pace ( molto punitivo per l’Italia anche per l’attacco dell’Asse al Regno di Jugoslavia e alla ferocia dell’occupazione nazifascista) e del passaggio dei poteri alle autorità jugoslave, che Maria Pasquinelli decise di agire. Raccontò poi così, al capitano dei servizi segreti britannici che la interrogava, il suo gesto: « La mattina del 10 febbraio 1947, verso le ore 9.00, mi trovavo a cinquanta metri dal quartier generale britannico, in un punto da cui potevo osservare il cambio della guardia. Alle ore 9.30 vidi arrivare l’automobile del comandante e, immediatamente, mi avviai verso l’edificio. La pistola era nascosta all’interno di una delle maniche del mio cappotto. Nell’avvicinarmi, notai che il generale stava parlando con i soldati schierati. Gli sparai tre colpi alla schiena, a bruciapelo. Ferito, iniziò a barcollare, mentre i quattro militi si dileguavano all’interno della caserma. Pochi secondi dopo, vidi arrivare un soldato britannico con il fucile puntato verso di me. Si avvicinò, ma sembrava incerto se sparare o meno. Lasciai cadere la pistola a terra e aspettai di essere arrestata » .
Verità mai raggiunta. Inutile dire che oggi, sul luogo dell’assassinio, non c’è neanche una stele. Per la strage di Vergarolla
ne è stata posta una accanto alla cattedrale di Pola. Ma per il povero De Winton, 38 anni, una moglie e un figlio piccolissimo, resta solo la tomba nel cimitero militare di Adegliacco, a Udine. Sulla vasta piazza affacciata sul mare e chiusa da Porta Gemina, troneggia solo un grande monumento a Tito e ai partigiani ( italiani compresi). Quello di Maria fu gesto inutile di una fanatica solitaria? Maria Pasquinelli, morta nel 2013 a cent’anni compiuti, divenne all’epoca un personaggio al tempo stesso scomodo e mediatico. Poi, con gli anni, si è trasformata in un’icona: più ancora dell’estrema destra che degli esuli istriani. Va detto che fu tra le primissime a denunciare il fenomeno delle foibe. In ogni caso parlarne suscita ancora un inaspettato vespaio. Che non aiuta la verità storica. Perché quella, grazie anche al silenzio di lei, non è mai stata raggiunta. Certo è che la “pasionaria” in tailleur grigio e mantella rosso mattone ( vestì uguale il giorno dell’assassinio e al processo, come a sottolineare di non voler passare inosservata) appare sempre di più oggi, alla luce dei documenti, un’agente della X Mas, ben consapevole del suo gesto. E tutt’altro che una fanatica isolata. I paragoni con l’attuale terrorismo sarebbero ridicoli. Ma di certo quasi mai i gesti isolati sono stati fini a se stessi. Un caso aperto, dunque, che alla luce di tutto quello che è successo poi in Italia e nell’ex Jugoslavia, si rivela tutt’altro che irrilevante. Maria Pasquinelli non era una donna comune: laureata in pedagogia, maestra ( alle donne non era concesso far molto di più), direttrice didattica, era nata a Firenze il 16 marzo 1913 da una famiglia cattolica. Era una fascista fervente, iscritta al partito dal 1933. Nel 1939 aveva anche frequentato la Scuola di mistica fascista a Roma e l’aveva poi polemicamente abbandonata. Ma soprattutto era stata attiva sui fronti di guerra: dopo essere entrata tra le crocerossine, aveva pensato bene di vestirsi da uomo per partecipare ai combattimenti in Libia. Scoperta, era stata cacciata pure dalla Croce Rossa. All’epoca dell’armistizio si trovava in Dalmazia, insegnante di scuola media. Poi, a fine 1944, riapparve a Trieste e in Friuli, come sostenitrice di un’improbabile alleanza tra partigiani e militi fascisti per impedire il passaggio dell’Istria alla Jugoslavia.
Compiti di intelligence. L’alleanza, ovviamente, non fu mai fatta e Maria fu pure arrestata. Ma a giudicare inaccettabile la perdita dei territori erano anche molti partigiani: i legami che Maria strinse con loro in quel periodo le sarebbero stati utili in seguito. Per seguirne le tracce negli ultimi due anni siamo partiti da Milano, dove aveva insegnato dal 1932 al 1941. Vi tornò dopo l’armistizio: a inizio 1944 insegnava in una scuola del quartiere industriale Bicocca. Ma già dal maggio era a Trieste: in teoria per indagare sulle foibe. Più probabilmente con compiti di intelligence. Da allora alla piovosa e tetra mattina del 10 febbraio 1947 non smise mai di muoversi, mantenendo stretti rapporti con la X Mas di Junio Valerio Borghese ( i cui crimini si protrassero ben oltre la fine della guerra). Il palazzo in cui alloggiò a Trieste, in via Manzoni 4, ha conservato l’aspetto di allora: Maria, arrivata in città per lavorare al Provveditorato agli Studi, vi prese in affitto una stanza il 16 dicembre 1945. La sua padrona di casa, come racconta lo storico Giuseppe Casarrubea, dichiarò poi che dava a volte ripetizioni a studenti ma faceva vita ritirata; a volte si assentava per diversi giorni, senza lasciar detto dove andasse. Solo ogni tanto diceva alla portinaia di recarsi dal fratello ricoverato a Udine. Tanti movimenti sorprendono in un periodo in cui spostarsi era difficile, lento e pericoloso: anche oggi, se si evita l’autostrada, il tratto Trieste- Pola non è una scampagnata. Capelli scuri e ricci, naso un po’ schiacciato, lo sguardo vivace, Maria non era dunque una scheggia impazzita: le donne avevano combattuto nelle file partigiane, militato con le formazioni nazifasciste, fatto le spie su tutti i fronti in azioni spericolate. Certo, l’aiutò un carattere impetuoso che si com-
binava con una sorprendente freddezza, esibita sia durante e dopo il delitto, sia al processo. Al momento dell’arresto le trovarono in tasca un biglietto con una lunga rivendicazione ( lo anticipò il 13 febbraio sul Corriere Indro Montanelli ammettendo di non averlo letto e di riferirlo in modo non puntuale): « Mi ribello, col proposito fermo di colpire a morte chi ha la sventura di rappresentarli, ai quattro Grandi, i quali, alla Conferenza di Parigi, in oltraggio ai sensi di giustizia, di umanità e di saggezza politica, hanno deciso di strappare una volta ancora dal grembo materno le terre più sacre all’Italia… » . Non rinnegò mai il gesto. Anche se, decenni dopo, uscendo dal silenzio, confessò alla giornalista triestina Rosanna Giuricin: « La morte del brigadieremi peserà finché vivo. Sento il suo fiato sul collo e il tempo non riuscirà a cambiare la tragedia che è stata » . Anche il Palazzo di giustizia di Trieste, in Foro Ulpiano 1, ha l’aspetto imponente e cupo di allora. Quando, il 10 aprile 1947, Maria fu condannata a morte dalla Corte superiore alleata, vi risuonò, come stonato, solo il pianto di Tina, Benedettina, una dei suoi quattro fratelli. Anni dopo, nel 1964, per assisterla, Maria avrebbe chiesto e ricevuto la grazia, dopo la commutazione della pena in ergastolo nel 1954. Subito dopo la sentenza, una telefonata anonima, come raccontò il Corriere della Sera, minacciò di far saltare il Grand Hotel di Trieste per ritorsione.
La condanna. Lei, dopo essersi dichiarata colpevole ( ma la Corte, per aiutarla, aveva ignorato la confessione), era rimasta come una statua. Anzi, fraintendendo una frase del presidente della corte, il colonnello John W. Chapman, che le ricordava il suo diritto all’appello, aveva dichiarato che non avrebbe mai chiesto la grazia. Come abbiamo visto, avrebbe cambiato idea: la liberazione avvenne in un’Italia immersa in tutt’altri problemi e con una diplomazia internazionale presa dalla questione cipriota e dal Vietnam. Durante il processo il colonnello Chapman e gli altri due giudici, il tenente Quarter e il maggiore Tasson, furono sempre cortesi con lei. I britannici, come scrisse il giornalista dell’Europeo Tommaso Besozzi, avrebbero perfino preferito che si fosse data alla fuga pur di non condannare una donna decisa a diventare un’icona ( lo era già per il pubblico del processo). Cortese e corretto era stato il Prosecutor, il capitano Leaning, che aveva dimostrato i fatti: Maria aveva voluto uccidere De Winton pur sapendo che il brigadiere non aveva alcuna responsabilità sul Trattato e sulle brutalità dei partigiani titini sugli italiani. Cortesi o reticenti? Perché oggi sappiamo che i britannici erano stati avvertiti della possibilità di un attentato. E incredibilmente avevano “dimenticato” di informare De Winton. Non solo: pedinavano da tempo Maria. Tra la fine della guerra e il Trattato di pace, il territorio veneto- giuliano brulicò di spie, di tutti i Paesi coinvolti. Gli atti di violenza furono numerosi e da parte di entrambe le comunità, italiana e slava. La strage di Vergarolla e il delitto di Maria Pasquinelli furono solo gli episodi più eclatanti di un conflitto etnico e politico di cui i fascisti avevano acceso la miccia, dando fuoco ai Narodni Dom ( i Palazzi del popolo) di Trieste, il 13 luglio 1920, e di Pola, il giorno seguente.
Possibile movente. Forse Pasquinelli non agì nell’ambito di una “strategia della tensione” organizzata. Forse, credeva ( e, con lei, chi le fornì la pistola, che invece Maria sostenne di aver trovato per strada) di scatenare una rivolta anti- titina. In ogni caso non era isolata. Il suo gesto esprimeva un sentimento diffuso in un Paese pure stremato da una guerra assurda e ridotto alla fame. Il giorno stesso in cui annunciava in prima pagina « Generale inglese ucciso da una donna a Pola » , il Corriere della Sera titolava anche « Abbiamo firmato: chiediamo giustizia per l’Italia » e commentava « Una triste giornata per l’Italia » . Il gesto di Maria, però, creò imbarazzo al governo di Alcide De Gasperi. L’avvocato difensore, Luigi Giannini ( medaglia d’argento al valore militare, ufficiale combattente delle armate alleate in Italia e prefetto di Ferrara dopo la Liberazione), sostenne che la Pasquinelli aveva agito in “stato di necessità”, ossia per evitare altre uccisioni di italiani. Molti sperarono in una dichiarazione d’infermità psichica. La Corte non accettò. Lei, d’altronde, fece di tutto per apparire normale. Le suore che le erano state assegnate di “scorta” al processo apparirono molto più a disagio di lei, che sembrava quasi distratta. Alla fine, fedele al copione, ringraziò la Corte. Chissà se si aspettava davvero il patibolo. Quale che fosse il vero obiettivo del suo gesto, in fondo, aveva fallito.
La maestra in tailleur grigio e mantella rossa, alla luce dei documenti, appare un’agente della XMasbenconsapevole del suo gesto