Fin che la barca va con le virtù
Un olio su pietra di paragone di vivace classicismo, a cavallo fra Guido Reni e Domenichino, dove l’Orbetto introduce una bella invenzione
Una triade caravaggesca a Verona: così Roberto Longhi identificò i caratteri distintivi di una pittura della realtà in tre pittori veronesi: Marcantonio Bassetti, Pasquale Ottino, Alessandro Turchi detto l’Orbetto. Un’altra caratteristica li accomuna: l’uso del supporto in pietra di paragone o lavagna, che predispone un fondale notturno, determinando un’atmosfera di chiaroscuro per i vividi colori contro uno sfondo nero. Le lavagne, in gran numero e di piccole dimensioni nei formati per una devozione privata, ebbero particolare fortuna a Verona. Alessandro Turchi, nato nel 1578, dopo una formazione veronese presso Felice Brusasorzi, nella eredità di Paolo Veronese e di Paolo Farinati, arriva a Roma, chiamato da Carlo Saraceni, nel 1614, in pieno fervore caravaggesco, ma curioso di tutto, e in particolare del classicismo di Guido, che aveva appena licenziato un capolavoro superbo e inevitabile come l’Aurora nella volta del casino Pallavicini. E Turchi, fin da subito, si dividerà fra i due modelli. Il dipinto che appare, ora, in una collezione napoletana, ne è un esempio. Si tratta di una singolare Allegoria delle Virtù teologali ( olio su pietra di paragone, cm. 29x41), di vivace classicismo, a cavallo fra Guido Reni e Domenichino, con la bella invenzione della barca guidata nella tempesta da tre bimbi con i simboli delle virtù, interpretati funzionalmente come strumenti di navigazione: l’ancora ( della Speranza), la fiaccola come segnalatore in mare ( della Carità), la croce come remo ( della Fede). La composizione ha ritmo nel movimento dei bambini alla guida della imbarcazione, evidente metafora della chiesa, e umorosa densità del colore, con una singolare casualità: le vesti dei piccoli nocchieri hanno i colori della bandiera italiana stagliati sul nero della lavagna. Il Turchi non è mai immemore della lezione caravaggesca, che ipostatizza in chiave classicistica, giusta l’influenza di un caravaggesco veneto della prima ora come Carlo Saraceni, il cui cromatismo resta tenacemente veneziano. Così il Turchi, soprattutto, ma non solo, per il genere della pittura su pietra di paragone, tende a una eletta misura compositiva campita nello spazio” notturno”. Poco dopo il suo trasferimento a Roma, Turchi aveva lavorato alla decorazione della Sala Regia del palazzo del Quirinale assieme al condiscepolo Marcantonio Bassetti, sotto la guida di Carlo Saraceni. Notato dal cardinale Scipione Borghese, dipinse per lui il Cristo pianto dalla Maddalena e dagli angeli e la Resurrezione di Lazzaro ( Roma, Galleria Borghese). Per il cardinale, lavorò alla villa di Mondragone e per il Casino del Barco. Molto legato a Verona, continuò a inviare dipinti di soggetto religioso per le chiese e di argomento mitologico per collezioni veronesi come la Gherardini, la Curtoni e la Muselli. Il suo più notevole mecenate fu il Marchese Gaspare Gherardini, informatore artistico di Cristina di Svezia. Artista di merito riconosciuto, nel 1637 fu nominato principe dell’Accademia di San Luca e nel 1638 membro della Congregazione dei Virtuosi al Pantheon. La figlia Cecilia nel 1640 si unì al pittore pistoiese Giacinto Gimignani, nelle cui opere si riconoscono chiari riferimenti a quelle del suocero.
Scelta inusuale. Del dipinto qui presentato esiste una versione, apparsa presso Robilant+ Voena, databile al 1625, dipinta a olio su tela di cm 128x174. Il Turchi si è dunque misurato sul tema della Allegoria delle Virtù teologali, anche nelle grandi dimensioni, sul mare contro un libero cielo nuvoloso, su commissione del cardinale Maurizio di Savoia per il suo palazzo di Montegiordano, sede dell’Accademia dei Desiosi, formalmente fondata dal cardinal Maurizio nel 1626, nei pressi di Castel Sant’Angelo. Nella sua collezione il Princeps Ecclesiae conservava la Lotta di tre amorini con tre baccarini di Guido Reni ( ora Torino, Galleria Sabauda) affiancata poi, su commissione del cardinale, a partire dal 1625, da una serie di dipinti allegorici con tre putti, richiesti a Domenichino, ad Alessandro Turchi, ad Alessandro Varotari detto il Padovanino e agli allievi di Reni Francesco Gessi e Giovan Giacomo Sementi, tutti in evidente chiave classicistica. Come ha scritto Vittorio Natale: « La scelta piuttosto inusuale del cardinale fu quella di non far impersonare le allegorie da figure femminili, come secondo la tradizione ci si sarebbe potuto aspettare, ma da putti. In questo modo non si confermava solo una predilezione iconografica già rivelata dalla committenza dei tondi ad Albani ( i Quattro elementi commissionati nel 1626 per il palazzo romano)... ma si inaugurava un nuovo filone iconografico, che avrà, con diversi accenti, grande diffusione per tutto il secolo successivo » .