Umberto Eco, un anno dopo: è come se non ci fosse più un uomo con la maglia n. 10 che ti farà il lancio perfetto
Ècomesenonci fosse più un uomo con la maglia numero 10 che ti farà il Cosa manca di lui? Manca il mondo del suo nord, fantasioso e solido, acuto e senza eccessi, che non è mai stato niente di ciò che predicano gli ideologi del Po o del populismo
Èdifficile spiegare cosa significhi per uno che è nato e cresciuto ad Alessandria pensare che Umberto Eco non c’è più da un anno e che non è più possibile, per quanto si verificasse raramente, incontrarlo in qualche via del centro con il suo amico, il fisarmonicista Gianni Coscia, magari per fermarsi a mangiare quella che da quelle parti chiamano “la bella e calda”, e che nel resto d’Italia si chiama cecina, farinata di ceci. Non era una cosa che accadeva spesso, d’accordo. Ma gli alessandrini, Eco lo incontravano, soprattutto nei suoi ultimi anni, per le strade della città. Era una eventualità possibile e gradita. Come era una eventualità possibile per noi ragazzi cresciuti in una città senza miti, grigia, nebbiosa e cer- to non troppo attraente, sapere che se da un posto del genere era uscito un tipo come lui, beh allora non tutto era perduto. Allora da quelle parti una speranza di riscatto esisteva. E non si era in una bruma ruvida dove tutto passava senza lasciare molte tracce. Poi certo, non si trattava soltanto di Umberto Eco. Ad Alessandria è nato e cresciuto anche Gianni Rivera. All’incirca di dieci anni più giovane. Ma diventato famoso negli stessi anni, perché il calcio è più precoce. Eco pubblica i primi saggi nei primi anni Sessanta, e Rivera passa dai grigi, la squadra di Alessandria, al Milan proprio nel 1960. Ma era già un fenomeno e sarebbe diventato uno dei venti calciatori più forti di tutti i tempi. Se inizio questo articolo in un modo così sghembo
una ragione c’è. Quando Rivera giocava allo stadio Moccagatta di Alessandria con la maglia dei grigi, e aveva 16 anni, ed era già in serie A, gli alessandrini mostravano ammirazione e scetticismo. Loro amavano i calciatori di quel tempo, quelli ruvidi, rocciosi, abituati agli scontri fisici, a smarcarsi con la forza, atleti che non sapevano far correre il pallone, ma di certo non si risparmiavano. Rivera era un’altra cosa. E dalle tribune di gradini in pietra, grigi pure quelli, apostrofavano il futuro Golden Boy con un’espressione lapidaria. « Accademia! » . Accademia stava per eleganza, classe assoluta, in un fisico non proprio da gladiatore, in un uomo che dominava il campo prima con le idee e con il pensiero, e poi con il calcio al pal- lone. Era accademia, ed era un mondo così. Algebrico: tutto somme e sottrazioni. Calcoli facili, lineari. Niente curve vertiginose, rette, o asintoti sfuggenti. D’altronde Alessandria era quello. Città fondata alla fine del XII Secolo senza i tesori del medioevo, senza chiese mirabili, senza un centro storico fatto di vie curve e sorprendenti, di palazzi bellissimi e di magia. Città così: tagliata da strade dritte che si incrociano come fossero le palazzine di una caserma. E infatti città tut
ta di caserme e di cittadelle militari.
La prima volta con Sean. Rivera stava al calcio come Eco stava alla cultura italiana. Eco non amava il calcio, anzi, forse un po’ lo detestava. L’errore più grave era parlargli di calcio. Non ne capiva niente e lo trovava noioso. Questo errore lo fece Sean Connery la prima volta che si incontrarono, mentre l’attore scozzese stava impersonando il suo Guglielmo da Baskerville nel film Il nome della rosa. Connery era un attore amato da Eco, perché aveva scritto un saggio su James Bond. Volle fosse lui il frate protagonista del film tratto dal suo celebre romanzo, e girato da Jean- Jacques Annaud. Ma Connery gli parlò solo di calcio, ed Eco non sapeva più come uscirne. Per cui sinceramente non saprei dire se questo paragone lo avrebbe trovato pertinente. Ma di certo ne avrebbe discusso, e avrebbe cercato di capire. Il calcio di Rivera funzionava in un certo senso come la mente di Umberto Eco. Era sempre un lancio che nessuno aveva pensato prima, era sempre la palla che andava dalla parte opposta dal punto che il difensore
Era divertente perché non perdeva mai di vista il senso delle cose che faceva
credeva di immaginare. Era qualcosa di perfetto che non aveva bisogno di retorica o di elogi. Era una classe che non andava sottolineata. In fondo gli alessandrini sui gradoni di pietra del Moccagatta avevano ragione: era accademia, e nel senso migliore del termine. E tutto questo nelle brume di una città di nebbie spesse, e come scriveva l’astigiano Paolo Conte, 36 chilometri da Alessandria, metro più metro meno: « Abbiamo il sole in faccia rare volte e il resto è pioggia che ci bagna » .
La sirena della fabbrica. Forse è anche per questo che Umberto era appassionato di cappelli. Anche perché Alessandria aveva anche la Borsalino. Celebre fabbrica di cappelli di feltro, fondata da Teresio Borsalino, che era senatore del Regno, e aveva sposato una soubrette dell’epoca, Gea della Garisenda, al secolo Alessandra Drudi, di Cotignola, provincia di Ravenna, quella che cantava “Tripoli bel suol d’amore”. Ma erano cose eccentriche che non toglievano nulla al rigore della sirena della fabbrica, delle donne che andavano a lavorare il cappello di feltro ( ci volevano mani femminili per modellare il pelo del coniglio), ai vapori di mercurio che con l’andare degli anni intossicava e bruciava i polmoni delle operaie, e al Sanatorio donato alla città dal senatore Teresio, che certo non sanava il problema ma aiutava. È passato un anno dalla scomparsa di Umberto Eco. Un anno da quella cerimonia al Castello Sforzesco di Milano dove hanno parlato in molti, ricordandolo, ma anche raccontando quello che ci lasciava e le cose di cui avremmo dovuto far tesoro. Ma è da qui che bisogna partire per capire cosa manca della sua voce oggi. Quel vero mondo del nord, fantasioso e solido, acuto e senza eccessi. Fulmineo e silenzioso. Quel nord che non è mai stato niente di quello che predicano gli ideologi del Po, e quelli dell’onestà scandita nelle tre sillabe della parola come una terzina stonata. Quel nord di radici solide, di poche parole, di concretezza
che oggi sembra sommerso, irriconoscibile, travolto da una piena ideologica e populista inimmaginabile anche solo trent’anni fa per terre così sensate. Un anno senza Umberto Eco significa che per tutti noi, indipendentemente da chi lo conosceva bene o di chi non lo conosceva affatto, c’è un punto interrogativo con cui dobbiamo fare i conti: cosa avrebbe pensato della crisi europea? Come avrebbe commentato l’elezione di Trump? Che libro avrebbe indicato, fatto riemergere dai secoli lontani del medioevo o del barocco, per darci una spiegazione di un fenomeno? Di un fatto di cronaca? Di una criticità che avremmo dovuto affrontare?
Giochi linguistici. E per chi lo conosceva, quante volte con una frase rapida ci avrebbe detto: non è questa la strada giusta. Cambia metodo di ragionamento. Oppure nel tuo pensiero c’è un punto debole. Ma senza quel gusto del distinguo lezioso e ampolloso di buona parte della cultura italiana. Si parla spesso di Eco come geniale inventore di calembour, paradossi, giochi linguistici. Era un uomo divertente perché non perdeva mai di vista il senso delle cose che faceva. Diceva più o meno questo: divertirsi sì, ma con serietà. Non c’era in lui niente di eccessivo, era un uomo di un pudore assoluto e di una riservatezza proverbiale. Persino timida. Ma aveva una capacità di comprendere le cose che non aveva paragoni. Era così. Era un numero 10 con il lancio perfetto. Senza compiacimenti, senza farla troppo lunga, senza mettersi la divisa da intellettuale, da scrittore, da professore. Senza mostrine da esibire. Uno che non andava in televisione perché non gli interessava, e che diceva qualcosa se aveva qualcosa da dire. Ma soprattutto che aveva capito come nessuno le derive della nostra società. Il destino di questo Paese. Senza atteggiarsi a profeta, che ovviamente non era e non voleva essere. Aveva visto gli apocalittici e gli integrati, aveva capito cosa ne sarebbe stato della televisione da lì a poco, aveva letto gli anni di piombo con una assoluta nitidezza, aveva previsto tutte le intolleranze ideologiche e politiche come un meteorologo infallibile. Non ha mai imposto il suo pensiero a nessuno. Non ha mai detto: non fare questa cosa. Se non gli piaceva un tuo libro taceva, non riteneva dovessi cambiare il tuo modo di scrivere. Ma se in quel libro commettevi un errore ti telefonava per dirtelo. Perché gli errori si correggono. Ma lui era quella roba lì, per usare una espressione delle sue parti. Era un’altra cosa. Da alcuni persino non amato, se non altro perché incapace di qualsiasi forma di diplomazia, quando parlavi con lui sapevi che ti avrebbe detto esattamente e senza sconti quello che pensava: non di te, troppo corretto per una cosa del genere, ma di quello che facevi, di quello che scrivevi e di quello che dicevi. Ma ogni volta pronto a cambiare opinione se riteneva di essersi sbagliato, o se tu lo soprendevi con qualcosa di diverso. Un anno senza Umberto è questa cosa. È l’idea che quel puntello, quell’uomo in mezzo al campo con la maglia numero 10, che alla fine ti manderà la palla giusta non c’è più. E che, calcio a parte, non ci sono più numeri 10, ma solo gente che si pensa numero 10 senza esserlo. Che poi sia un campo di segale, come quello di Salinger, o un campo di calcio, come quello del suo concittadino Rivera poco importa. In fondo sono la stessa cosa.
Quante volte con una frase rapida ci avrebbe detto: non è questa la strada giusta. Cambia metodo di ragionamento