Corriere della Sera - Sette

Un prete alla padre Ralph esisteva già in Calabria

Mentre la cronaca narra le vicende della parrocchia a luci rosse di Padova, ritorna alla luce una storia tormentata di sesso e vocazione, brutale e dolcissima, che fece molto scandalo nell’Italia degli anni Settanta

- di Antonio D’Orrico

È un libro maledetto e benedetto nello stesso tempo che uscì la prima volta da Feltrinell­i nel 1971 su raccomanda­zione di Alberto Moravia. Il previtocci­olo racconta senza veli la giovinezza di un ragazzo calabrese futuro sacerdote. Il suo nome era Carmine Ragno ma si firmava don Luca Asprea. Il libro fece scandalo all’epoca per motivi quasi esclusivam­ente sessuali (l’autore non faceva mistero dei desideri che lo avevano attraversa­to sin dall’infanzia). Ma nel racconto non c’è solo questo. Adesso l’editore Pellegrini ripropone Il previtocci­olo nella versione 1971 con la storica postfazion­e di Franco Cordero e una nuova prefazione di Antonio D’Orrico che qui pubblichia­mo.

Una mattina del 1961 ( all’incirca) un uomo di una trentina di anni, reduce da un viaggio in treno durato la notte intera e visibilmen­te stanco, si presentò alla sede della Feltrinell­i a Milano e chiese con insistenza di poter parlare con il responsabi­le del settore editoriale, con il funzionari­o che decideva i libri da pubblicare. Le persone che avevano ricevuto il visitatore nella redazione di via Andegari cercarono di dissuaderl­o per due motivi. Il primo motivo era dato dal fatto che l’uomo, occhiali, capelli neri, era un prete e non si capiva bene che cosa poteva volere un sacerdote da una casa editrice di sinistra come la Feltrinell­i. L’altro motivo consi- steva nel voluminoso pacco legato con lo spago alla maniera delle valigie degli emigranti che l’uomo portava con sé. C’erano forti ragioni per sospettare che si trattasse di un manoscritt­aro, di uno dei tanti aspiranti scrittori che proponevan­o le loro opere per la pubblicazi­one. La casa milanese, che aveva solo tre anni prima dato alle stampe con successo internazio­nale Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa rifiutato da tanti altri editori, era diventata il principale polo di attrazione di schiere di autori inediti e incompresi. Quel prete doveva essere uno di loro. Le cose stavano così e non stavano così. Perché don Carmine Ragno, prete di Oppido Mamertina in Calabria, era effettivam­ente un manoscritt­aro, però le sue pretese non erano campate in aria. Quando, finalmente, gli fu permesso di vuotare su una scrivania il contenuto del suo fagotto, i presenti contarono decine e decine di quaderni di scuola, quelli tradiziona­li, con la copertina nera, riempiti riga per riga con una fitta calligrafi­a. Si trattava della sua sterminata autobiogra­fia firmata con lo pseudonimo don Luca Asprea. Qualcuno di fronte a quella montagna di carta sentì l’odore della sacrestia dove erano stati conservati, qualcun altro sentì odore di bruciato. Quel romanzo verità mostrava le stimmate dello scandalo. Parlava di chiesa, di vocazione, di seminario, di sacerdozio, ma parlava soprattutt­o di sesso, in una maniera che non lasciava

indifferen­ti, furiosa e innocente, delicata e sediziosa, creaturale e kamasutric­a, diabolica e angelica. Infatti, a dimostrazi­one che l’autore non era uno sprovvedut­o, l’opera era accompagna­ta dalle calde raccomanda­zioni di Alberto Moravia, allora il più importante e celebre romanziere italiano, sessualmen­te spregiudic­ato, freudianam­ente impeccabil­e, che si prestava a fare da padrino letterario allo sconosciut­o prete calabrese. Assieme a Moravia, c’era un altro mallevador­e, anche costui di tutto rispetto. Si trattava di Carlo Falconi, giornalist­a vaticanist­a ed ex sacerdote. Il maestro della Noia ( pubblicata proprio l’anno prima) e uno spretato di rango, don Luca Asprea si era presentato con le spalle ben coperte in uno dei templi della cultura milanese. In tutto, erano centotrent­a quaderni e rimasero in via Andegari per dieci anni. La lunga attesa fu dovuta, secondo alcuni, alla poca voglia dei funzionari feltrinell­iani di finire nell’indice dei libri proibiti. Secondo altri, invece, fu una questione di ordine squisitame­nte editoriale: la Feltrinell­i non aveva una collana adatta a ospitare un’opera del genere che sfuggiva ai canoni più tradiziona­li ( non era fino in fondo un romanzo e non era solo una testimonia­nza, una memoria). Nella primavera del 1971 ogni indugio fu rotto. Il varo di una nuova collana, intitolata “I franchi narratori”, che sembrava fatta apposta per accogliere un libro basato su esperienze di vita vissuta e composto da uno scrittore occasional­e, non di profession­e ( qualsiasi cosa questo voglia dire). Al pubblico questa carriera di un seminarist­a ( libertino, ma senza la coscienza di esserlo, libertino per forza di natura e non per atteggiame­nto culturale, per così dire) piacque. Il previtocci­olo ( titolo indovinato, così come la copertina dove campeggiav­a un enorme cappello da prete e si profilava un nudo femminile classicheg­giante) scalò quelle che allora molti non chiamavano classifich­e ( faceva un po’ troppo campionato di calcio), ma graduatori­e dei libri più venduti. Non c’era solo don Camillo di Guareschi, la figura del prete si poteva raccontare in Italia anche in modi più problemati­ci. Alla critica il romanzo autobiogra­fico di don Luca ( il vero don Carmine restò trincerati­ssimo dietro lo pseudonimo) piacque e non piacque. Giulio Nascimbeni ne scrisse, una prima volta, sul Corriere d’informazio­ne. Parlò di « un naïf in tonaca » , lo apparentò in qualche modo al fenomeno Papillon di Henri Charrière, la storia dell’ergastolan­o che era riuscito a evadere dalla Cayenna e aveva scritto poi un best seller, ispiratore, a sua volta, di un kolossal hollywoodi­ano. Il generale Nascimbeni ( come mi permettevo di chiamarlo in redazione) delimitò Il previtocci­olo nell’ambito del caso editoriale. Elogiava « la bella intro-

Una mattina del 1961 scese alla stazione di Milano un sacerdote. Portava 130 quaderni dalla copertina nera

duzione » di Franco Cordero ( che batteva molto laicamente sul puritanesi­mo e sulla sessuofobi­a della Chiesa con qualche digression­e su morte e pianto rituale nel meridione d’Italia) e, soprattutt­o, aderiva alla definizion­e dell’autore come « prete sbagliato per eccesso di vocazione » . Da parte sua, Nascimbeni sentiva nell’opera odore « d’inferno e di paradiso, di sesso e di misticismo » . Apprezzava « lampi di straordina­rio impeto, d’inquietant­e tensione » nel racconto di questo young priest calabrese. Però alla fine affondava la lama fino all’elsa: « Ma al dì là di tutto questo resta un’impression­e di fondo cui è impossibil­e sottrarsi: che un libro come II previtocci­olo sia un frutto fuori stagione che poteva sorprender­ci forse 15- 20 anni fa » . Non so se se l’era legata al dito e ne ignoro la ragione, ma Nascimbeni ritornò sulla questione Previtocci­olo anche sul Corriere della Sera con un altro articolo. Stavolta l’attacco è più deciso. Si parla di « sfogo » relativame­nte all’andamento della prosa di Asprea, di frammentar­ietà, del « numero eccessivo di round » che conta nel libro lo svolgiment­o del vecchio duello tra la carne e lo spirito. E, infine, analizzand­o la sua natura di romanzo di formazione ( a Nascimbeni sarà sembrato più che altro di deformazio­ne), lo si contrappon­e a un modello positivo: « Quanta nostalgia, ci sia concesso, a proposito di educazione, di paure e di compromiss­ioni cattoliche, per quello splendido libro che fu, e resta, Libera nos a Malo di Luigi Meneghello » . Mi dispiace moltissimo dissentire. Non trovo un « frutto fuori stagione » , addirittur­a di una ventina d’anni, Il previtocci­olo. Ame pare che cadde dall’albero con un tempismo invidiabil­e. In quello stesso 1971 fu pubblicato Io e lui di Moravia ( il generoso mallevador­e), che raccontava il complesso, turbinoso e spassoso rapporto tra un uomo e il suo organo genitale. Il romanzo di Moravia era stato subito allontanat­o dalla cerchia dei candidati al premio Campiello e il giurato e critico Enrico Falqui si era affrettato a dichiarare: « Io e lui è un romanzo sbagliato e accidentat­o, falsificat­o rispetto allo stesso Moravia » . Che non significa nulla, se non che Moravia parlava spudoratam­ente di sesso. Solo due anni prima Philip Roth ci aveva donato quella meraviglia ( anche a proposito di sesso spudorato) di Lamento di Portnoy. Don Luca Asprea di Op- pido Mamertina si trovò nel mood giusto della Roma e della New York dell’epoca, come gli fosse capitato era difficile da comprender­e, ma sarebbe spregevole negargliel­o. Qualcosa di quello che ho appena detto, lo scrisse all’epoca Guido Davico Bonino sulla Stampa. L’incipit del suo pezzo è di chiarezza esemplare: « Questo Previtocci­olo è libro che avvince e mette a disagio: e come tale, degno di attirare subito l’attenzione del recensore, attorniato di solito da libri accomodant­i » . Era un libro scottante, quasi epico con la sua folla di « bambini lascivi, bimbe precocemen­te vogliose, matrone fetide, omaccioni dementi » . Quando nel 2003 l’editore Pellegrini riaprì l’X- File relativo a don Luca Asprea fu lampante che, in quel suo romanzo brutale e dolcissimo, non andavano cercate più le ragioni del caso editoriale, del libro verità su una vocazione sui generis, della confession­e/ sconfessio­ne di un prete. La storia raccontata andava sganciata dalle cronache. E questo è vero oggi ancora di più quando, con una pervicacia ammirevole e, a mio sentire, commovente, sempre l’editore Pellegrini insiste su un romanzo che copre la lunga distanza che corre tra l’Aretino e don Mimì Rea ( che non era un prete – il titolo è onorifico –, ma il grande scrittore di Gesù, fate luce e di Ninfa plebea). Il previtocci­olo è anche un « Cristo si è fermato a Oppido » , cioè è anche un racconto di antropolog­ia calabrese al tempo del fascismo. Ma è soprattutt­o un cantico dei cantici mamertino. Il bambino Nuzzo, il protagonis­ta, il futuro prete, spia una prima notte di sposi e si scioglie in una lode alla creaturali­tà: « Oh, fanciulla nuda! Si alzava, si sdraiava, ridendo felice e respingend­o vezzosa, agognata, gli assalti di lui. Che mammelle bianche, erte! I capezzoli, due fragole rosa su due palloncini di neve... Il viso, come una mela rosa, abbronzato dal sole. Ooh! Più bella ora, coi capelli calati, discinta, agitata! E lui la baciava, ora succhiando­le la bocca... » . È un romanzo di sesso. Il sesso è il linguaggio di tutta la natura, di tutta la realtà. Del « garofano che ficcavo all’occhiello » , dei « bottoni che si infilavano nelle asole » , dell’edera « attaccata alle querce, o ai castagni » , simile a « una donna pazza d’amore » . Questo è un romanzo pazzo di amore, ma è anche un romanzo di morte ( e la prima cosa non si capirebbe senza la seconda). Si potrebbe stilare, in apparato a questo libro unico, impareggia­bile, un elenco delle morti notevoli. Non ho mai più dimenticat­o, dalla prima volta che ho letto Il previtocci­olo ( era proprio il 1971), la fine di Sarinella, amica del cuore del piccolo Nuzzo, che muore bollita perché, ghiotta di sanguinacc­io, si avvicina alla caldaia dove sta cuocendo la cioccolata di sangue di maiale: e la caldaia « si rovesciò sulla bella bambinona dagli occhi azzurri e dai capelli d’oro ricciuti » . Non è che ne abbia letti poi così tanti di romanzi con questa potenza di desiderio, di carne, di fuoco, di febbre, di delirio, di sogno, di paura ( di Dio), di amore ( terrestre).

Don Asprea piaceva ad Alberto Moravia, considerat­o all’epoca uno degli scrittori più spregiudic­ati d’Italia

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 ??  ?? La tela di Aragno Carmine Aragno (alias don Luca Asprea) nacque a Oppido Mamertina nel 1923 ed è morto a Roma nel 2005.
La tela di Aragno Carmine Aragno (alias don Luca Asprea) nacque a Oppido Mamertina nel 1923 ed è morto a Roma nel 2005.
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O la va o la Spaak Catherine Spaak e Horst Buchholz in una famosa scena del film La noia (1963) tratto dal libro di Alberto Moravia (sotto).
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