Lo chiamavano il James Dean dei fascisti francesi
Amava le donne e i viaggi. Era un decadente, incapace di combattere con la vita. Inquieto politicamente, si schierò a favore di una politica di collaborazione con la Germania. Poi, al terzo tentativo, riuscì a togliersi la vita. Ora un saggio lo ricorda
Tra le passioni francesi, oltre alla Bardot e al camembert, entrambi pericolosi per il colesterolo, spicca l’Occupation e correlata Collaboration, con tanto di maiuscole. Quattro lunghi anni ( 1940- 1944) sotto il tallone tedesco hanno lasciato nella storia, nella cultura e nell’immaginario popolare d’oltralpe una ferita non ancora rimarginata, su cui autori, editori e produttori continuano a fare soldi a palate. Il fascismo francese, limitato tra le due guerre a pochi gruppuscoli, si diede alla pazza gioia dopo la disfatta del maggio 1940, all’ombra della svastica che garriva sulla Torre Eiffel e dominava una Francia in balia del Terzo Reich. Il paese fu diviso tra la “zona occupata”, con Parigi e il nord del Paese, sotto diretto controllo tedesco, e lo “Stato francese” di Vichy a sud, con a capo l’ottantenne maresciallo Pétain. Dietro un’autonomia di facciata, Vichy poté così introdurre misure come la legislazione antiebraica e i tribunali speciali, senza che i tedeschi avessero bisogno di sporcarsi le mani. Non bisogna pen- sare che a collaborare fossero solo zelanti funzionari di regime, come l’allora giovane e già ambiziosissimo François Mitterrand, che ha poi fatto di tutto e di più per coprire le sue tracce. Lo fece gran parte della classe dirigente e dell’intellighenzia, che dopo il 1945 cercherà di far dimenticare le proprie responsabilità. Ma collaborò anche la gente comune, i famosi “quaranta milioni di pe- tainisti”. Polizia di Vichy e Gestapo nazista furono letteralmente “invase” da migliaia di lettere anonime ( non sempre) di denuncia e delazione. Lo illustra bene un film come Il corvo di Clouzot, grande regista che sarà epurato alla Liberazione per aver osato raccontare il vero. Solo il gesto insurrezionale del generale di brigata “a titolo provvisorio” Charles de
Era stato persino un difensore dell’imbelle Società delle Nazioni. Ma c’era in lui un lato
oscuro, che aveva a che fare con la natura, non con le ideologie
Gaulle, che nel 1940 non incarnava in senso stretto la legalità parlamentare, tantomeno la maggioranza di una popolazione stremata, permise al Paese di figurare cinque anni dopo nella foto di famiglia dei vincitori della seconda guerra mondiale, e di ottenere addirittura un seggio di membro permanente all’Onu. Questa premessa serve a introdurre il volumetto che Aude Terray ha dedicato a Les derniers jours de Drieu La Rochelle ( Grasset). È una compilazione in tenue forma narrativa dei diari, lettere e frammenti autobiografici che Drieu redasse tra l’agosto 1944 e il 15 marzo 1945, prima del terzo e fatale tentativo di suicidio.
La variante gallica di Scott Fitzgerald. Il libro non aggiunge molto a quanto era già noto, eppure è balzato in testa alle classifiche perché fa rivivere la figura del più paradossale, affascinante e contraddittorio degli scrittori collaborazionisti, passato alle cronache come il dandy o il James Dean del fascismo francese. La formazione co- smopolita, anglofila, liberale di Drieu, nato nel 1893, lo spingeva verso un’Europa unita e riconciliata dopo la carneficina della Grande Guerra, salutata in opere come Il giovane europeo ( 1927) e L’Europa contro le patrie ( 1931). Era stato persino un difensore dell’imbelle Società delle Nazioni. Ma c’era in lui un lato oscuro, che aveva a che fare con la natura, non con le ideologie. Scettico e disinvolto, Drieu sembrava una variante gallica di Scott Fitzgerald, attratto come il confratello americano da tutto quel che luc-
cicava: donne, viaggi, avventure. Era un decadente, incapace di combattere con la vita, anche se era stato un soldato coraggioso nelle trincee della Grande Guerra, esperienza alla quale dedicherà uno dei suoi testi migliori, La commedia di Charleroi ( 1934). La tentazione autodistruttiva covava in lui sin dall’adolescenza e nasceva dal dissidio tra quel che era e quel che avrebbe potuto e voluto essere. Si dirà che è un problema di molti, ma lui era fatto per portarlo alle conclusioni estreme. Fedele ai propri ideali, li aveva sporcati e deturpati per una forma viscerale di auto- odio. Sentiva di essere la “valigia vuota”, il “pallone flaccido”, il “fuoco fatuo”, che l’attore Maurice Ronet ( altro grande inquieto che si uccise con l’alcol) ha splendidamente incarnato nel film omonimo di Louis Malle. Brigitte Drieu La Rochelle, cognata e unica erede dello scrittore ( oggi scomparsa anche lei), mi regalò anni fa una foto di Drieu quindicenne. Nel broncio di quel ragazzo trasognato che non aveva ancora perso i suoi boccoli biondi, sembrava già disegnarsi l’impronta di un destino sbagliato, ma a suo modo coerente e onesto. La tentazione fascista travolse Drieu a metà degli anni trenta In Francia, il Fronte
Popolare aveva alimentato molte speranze, ma anche paure e rancori soprattutto nelle classi medie. In Germania, il Terzo Reich passava da un bluff all’altro e sparigliava le carte della pigra e disorientata diplomazia europea, in attesa di scatenare la guerra al momento giusto. Il conflitto spagnolo ne fu la prova generale. Drieu, come altri intellettuali in cerca di un capo, fu attratto dalla figura dell’ex sindacalista comunista Jacques Doriot, “l’uomo che suda”, fondatore del Parti Populaire Français ( Ppf). Abile e pericoloso demagogo, Doriot anticipava i temi della “rivoluzione nazionale” di Vichy, fra cui il più noto fu “la Francia ai francesi”: uno slogan, come si vede, facile da adattare a tutti i Paesi e movimenti xenofobi, ieri come oggi. Doriot morirà mitragliato dalla caccia alleata, in uniforme da ufficiale delle Waffen SS francesi.
Diverso da Cèline. Si salverà invece il suo braccio destro, Victor Barthélemy, che ritroveremo vent’anni dopo tra i fondatori del Front National di papà Le Pen. Buon sangue non mente. Drieu si era fatto molti nemici in quegli anni. Ma il suo caso era diverso da quello di un Céline, il quale, checché sostengano i suoi poco informati o disinformati apologeti, non era più l’autore d’anteguerra di Morte a credito e del Viaggio al termine della notte, ma un esponente farneticante della Collaboration, che se la squagliò in Germania non appena capì che le cose si mettevano male. A differenza di
simili profeti dell’odio, Drieu conservava amici ed estimatori anche tra gli avversari, diversi dei quali aveva protetto e salvato. Riuscì a sottrarre alle grinfie della polizia ( francese) poco prima che finisse nei vagoni piombati per i campi di sterminio, l’ex moglie ebrea, la biologa Colette Jéramec, e i due figli che la donna aveva avuto da un altro marito. Uno dei due, che porta lo pseudonimo dello scrittore, Gilles e ha pubblicato anni fa il tormentato epistolario tra Drieu e Colette, mi ha detto più volte di ricordarlo ancora non solo perché li salvò, ma perché li amava veramente. Ed è tipico dell’autoodio di Drieu che nel suo diario affermi esattamente il contrario, negando di essere intervenuto in loro favore: affermazioni che, purtroppo, critici frettolosi e benpensanti hanno preso alla lettera. Molti si prodigarono per aiutarlo, a cominciare dal “fratello separato” André Malraux, diventato uno dei capi militari delle forze golliste. Un passaporto per la Svizzera era pronto: qualche anno di esilio e tutto sarebbe rientrato nell’ordine, come capiterà con Paul Morand e altri personaggi ben più compromessi di Drieu. Ma non era una sorte che potesse soddisfare il suo torturato narcisismo. Tutti, intorno a lui, correvano verso i nuovi vincitori del 1945, com’erano corsi verso il vincitore tedesco del 1940. Lui decise di diventare il Vinto per eccellenza. Pagò non tanto per le sue colpe, tutto sommato lievi nel clima di allora, ma per i fantasmi che non gli davano tregua. Vi è un parallelismo emblematico tra il suicidio di Stefan Zweig, che abbiamo rievocato di recente su queste colonne, e quello di Drieu. Vincitore morale, il primo, sul fanatismo e le persecuzioni. Perdente che espia anche crimini non suoi, il secondo. Entrambi uniti dalla convinzione che essere un intellettuale comporti ben precise responsabilità. Ogni riferimento ai nostri tempi è puramente casuale.
La tentazione autodistruttiva nasceva dal dissidio tra quel che era e quel che avrebbe potuto e voluto essere