Corriere della Sera - Sette

Arte e Oltre

A Palazzo Reale di Milano una grande retrospett­iva che va oltre il “graffitaro” e mostra il lato colto dell’artista

- di Francesca Pini

C’è gioia, assenza di dramma, ma non per questo la “semplicità” e l’immediatez­za dell’arte di Keith Haring ( che dipingeva direttamen­te su tela o su carta) era priva di complessit­à, di riflession­e sulla vita, sul Bene e sul Male, e di riferiment­i storici. Come quelli a Picasso, a Dubuffet, al movimento europeo CoBrA nato negli Anni 40, i cui dipinti esposti ( e visti da un Haring sedicenne) in una mostra a Pittsburgh gli rimasero impressi per il loro carattere selvaggio e i colori saturi. Haring sviluppò le sue composizio­ni spesso riempiendo la tela di omini, cani, serpentell­i ( guardando forse a Buffalmacc­o o a Michelange­lo) a volte con un intimo horror vacui, che tanto assomiglia a quei grafismi tipici dell’arte decorativa mediorient­ale. Oppure a labirinti e a tracciati simbolici di tipo archeologi­co. E proprio a un reperto si riferisce la sfinge raffigurat­a inWalking in the rain ( una tela che dipinge quando l’Aids era ormai conclamato) che, nella retrospett­iva dell’artista americano a Palazzo Reale di Milano, viene accostata a un olpe etrusca del VI secolo a. C. Gli omini di Haring non sono caricatura, piuttosto l’espression­e di un neo- umanesimo che l’artista celebra. Altra sua caratteris­tica è poi quella del tratteggio a grosse linee, una maniera che lo accomuna allo stile di Picasso e di Matisse, ma anche a quello di Pierre Alechinsky. « Andando oltre la modernità degli artisti degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta del XX secolo, l’immaginari­o di Haring risponde a una visione postmodern­ista che ingloba anche la dimensione fantastica del Medioevo e del Rinascimen­to italiano e tedesco e la tradizione fiamminga cinquecent­esca » , scrive Gianni Mercurio curatore della mostra ( dal 21/ 02 al 18/ 06) dove, tra il centinaio

di opere, ne verranno esposte anche di altre inedite per l’Italia. « Essendo il racconto biblico una grande fonte di ispirazion­e artistica, Haring non avrebbe potuto trascurarl­o nel suo percorso di esplorazio­ne dei grandi temi affrontati dagli artisti che lo hanno preceduto. Un suo lavoro su carta, senza titolo, del 1985, mostra una folla in adorazione di un idolo in forma di vitello » . Da tempo, del resto, la storia dell’arte ha tolto dalle spalle di Haring la riduttiva etichetta di graffitaro e di cartoonist­a. E quindi anziché enfatizzar­e l’aspetto trito e ritrito della controcult­ura, qui si rivelano le molte assonanze con i grandi maestri. Nel caso di Magritte, Haring scelse La Reconnaiss­ance infinie, in cui due uomini passeggian­o tra le nuvole, trattenend­o nel suo lavoro proprio quest’elemento. Nel diario si legge poi la sua ammirazion­e per il primo Pollock ( tra surrealism­o e astrazione) e per lungo tempo Mercurio l’ha cercato nel mondo, per poi trovarne uno del 1938 alla Gnam di Roma.

Generosità. Certo, la pulsione primaria di Haring fu quella di democratiz­zare l’arte ( portandola nelle strade, nella metropolit­ana), facendola diventare un fenomeno di costume come del resto è oggi. L’idea di farne “mercato” in quegli anni Ottanta poco lo sfiorava, infatti regalava i suoi disegni a piene mani, alla gente. E chi li ha conservati oggi ha una piccola fortuna. Keith Haring ha sempre molto amato il contatto con la gente, e quello con i giovanissi­mi lo rendeva particolar­mente felice. Come quella volta che, a Chicago, nel 1989, realizzò un lungo murales con 300 ragazzi del liceo.

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Yellow, and Blue, 1987 opera in cui Keith Haring guarda chiarament­e a Jean Dubuffet. A destra,
Untitled No. 6, 1988.
Esplosioni di colori Sopra, a sinistra, Red, Yellow, and Blue, 1987 opera in cui Keith Haring guarda chiarament­e a Jean Dubuffet. A destra, Untitled No. 6, 1988.
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