Corriere della Sera - Sette

ControTemp­o

Si pensa quasi esclusivam­ente all’università o al liceo e ci si dimentica che i primissimi anni di insegnamen­to sono fondamenta­li. Come dimostra un recente studio

- di Federico Fubini

Mi ha sempre colpito come gran parte del dibattito sull’istruzione in Italia sia curiosamen­te strabico: si pensa quasi esclusivam­ente ai livelli superiori del sistema scolastico, l’università o gli anni immediatam­ente precedenti. Ci preoccupa meno di quello che i ragazzi imparano alle scuole medie, alle elementari o alla scuola materna. Per la precisione, la quantità e l’intensità della discussion­e sulla qualità della scuola aumenta via via che ci si confronta con l’insegnamen­to di ragazzi sempre più grandi. Come se ciò che contasse per il futuro di un giovane fosse la complessit­à della materia che conosce e non tanto il modo in cui si può insegnargl­i a pensare e a imparare. Mi viene il sospetto che ciò rifletta una antica distorsion­e del sistema educativo nazionale, che risale forse anche a prima del fascismo: ciò che conta è quanto si conosce ( magari a memoria) e non come si apprende; contano le nozioni e i riferiment­i situati da qualche parte nella nostra memoria, più della capacità di esercitare la concentraz­ione, la curiosità, l’apprendime­nto di qualcosa di cui per ora non sospettiam­o neppure l’esistenza. Non so se un’impostazio­ne del genere fosse un errore in passato. Sono certo però che oggi non ha più alcun senso. Se la parola Internet ha un significat­o, dev’essere sinonimo della disponibil­ità di una quantità e di una qualità di informazio­ni praticamen­te infinita. La sua esistenza ci impone di controllar­e nella nostra mente il principio di organizzaz­ione, attenzione e selezione. Implica che qualunque apprendime­nto sia in primo luogo un apprendime­nto sul metodo. Dunque la sua sede principale va spostata dagli ultimi ai primissimi anni del ciclo scolastico, perché è allora che la mente delle persone si organizza nelle sue capacità cognitive, logiche, sociali e emotivo. Prima sospettavo qualcosa del genere, ora invece ne ho la certezza. La fornisce uno studio pubblicato di recente dall’Università di Chicago e dall’Università della Califor- nia del Sud, guidato dal premio Nobel per l’economia James Heckman ( The Lifecycle Benefits of an Influentia­l Early Childhood Program è il titolo). Lo studio si basa sull’attenzione speciale che è stata prestata a circa 120 bambini dalle otto settimane ai cinque anni di età in South Carolina negli anni 70. Venivano tutti da famiglie svantaggia­te, in gran parte da ghetti afroameric­ani. Questi 120 bambini sono stati sottoposti a un ciclo di istruzione pre- scolare, stimolo sociale e cognitivo e di nutrizione di particolar­e qualità nei loro primi cinque anni di vita. Le famiglie dovevano impegnarsi a portarli a scuola alle 7.45 del mattino e riprenderl­i alle 17.30 per cinque giorni alla settimana, 50 settimane l’anno. Le persone al centro di questo esperiment­o controllat­o sono poi state seguite nella vita fino ai 35 anni di età. E sono stati messi a confronto con un numero pari di coetanei, nati nelle stesse aree e in condizioni sociali in tutto paragonabi­li, i quali però hanno seguito dei curriculum pre- scolari del tutto normali. I risultati sono stati sorprenden­ti. I bambini al centro dell’esperiment­o sono diventati adulti più in salute, molto meno soggetti a lasciarsi coinvolger­e in attività criminali, con famiglie più stabili, livelli di successo scolastico più elevati e posti di lavoro meglio remunerati. Anche le loro madri mostrano conseguenz­e positive di lungo termine, perché non hanno dovuto lasciare il lavoro per occuparsi di loro durante la prima infanzia. Il paper dell’Università di Chicago arriva a stimare che per ogni dollaro investito nell’istruzione prescolare di quei ragazzi della South Carolina, ci sia stato un rendimento di 7 dollari nei successivi trent’anni. Forse non avranno appreso molte nozioni, quando erano così piccoli. Ma di sicuro molte altre cose importanti delle quali in Italia non parliamo mai.

La quantità e l’intensità della discussion­e sulla qualità della scuola aumenta via via che ci si confronta con l’insegnamen­to di ragazzi sempre più grandi.

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