Simic, il poeta venuto dall’orrore
Profugo-bambino nella Seconda guerra mondiale. Poi migrante e apprezzato intellettuale: la parabola di uno spirito critico
Serbo- americano, poeta senza illusioni, Charles Simic cita volentieri Buster Keaton; non per la sua impassibilità, ma per la sua « superiore serenità di fronte al caos » . Così è la grande poesia, spiega: Buster Keaton, « naufrago alla deriva sull’oceano sconfinato » , che « trova un tabellone galleggiante, in realtà un bersaglio per le esercitazioni delle navi da guerra, vi sale sopra, tira fuori la canna da pesca e si mette come se niente fosse a pescare » . Attenta a cogliere il lampo d’alterità che per un istante rettifica la natura delle cose, la poesia lirica e colloquiale di Simic è fatta di tutti i materiali possibili, specie di quelli profani; materiali rubati al tran tran d’ogni giorno, come nei « collage di bottoni, fotografie, vetri azzurrati, aghi e perline, pagine di libri » che si accumulano dentro le « scatole » surrealiste di Joseph Cornell, un artista newyorchese al quale Simic ha dedicato, anni fa, un grande libro, Il cacciatore di immagini. C’è qualcosa di surrealista ( il « sontuoso groviglio/ d’ombre frondose/ che s’aggrovigliano e sgrovigliano » di cui si legge in una delle poesie diHotel Insonnia) anche nei saggi e nei pezzi d’occasione raccolti nella Vita nelle immagini, un libro del 2015 appena tradotto da Adelphi. Anche qui, come nelle poesie, la scrittura di Simic è qualcosa che sembra capitare, come un pensiero improvviso e insistente, nella zona di confine tra il sonno e la veglia. C’è « la calma esagerata di BusterKeaton » ( c’è anzi qualcosa di « quel gattone arancione/ che sguscia dentro e fuori/ dalla prigione comunale/ come e quando vuole,/ mica male eh? » di cui si parla in una poesia di The lunatic) dietro i saggi che elogiano le salsicce e il blues, il turpiloquio e le invettive, l’umorismo e gli angoli di Manhattan dove meditare sulla « vita tragica » di Marina Cve- taeva, ragionare di Witold Gombrowicz, raccontare con smagato e disperato sgomento gli orrori del nazionalismo, inseguire fantasmi, pensare al sesso e metterlo in versi, leggere i libri dei grandi utopisti e quelli del suo editore italiano, Roberto Calasso, l’ « esperto affabulatore » che « mescola tragedia, pettegolezzi e brani poetici » riportando « in vita le soap operas dell’antichità » . Come ci ricorda lui stesso, Simic ha « letto di tutto, da Platone a Mickey Spillane » . Al pari dei suoi libri di poesia, anzi come tutti i libri in generale, anche La vita delle immagini, è una « scatola » poetica ( i surrealisti avrebbero detto una « macchina celibe » , senza scopo, eppure specchio della condizione umana) in cui infilare tutto quel che si svela all’occhio. Ma attenzione. Fissata troppo a lungo, come sapeva il più baffuto dei filosofi, la bellezza del mondo restituisce a chi la contempla uno sguardo che pietrifica. « In una lettera a Hannah Arendt » , scrive Simic, « Karl Jaspers descrive un giochino che usava fare Spinoza: metteva delle mosche in una ragnatela, poi ci aggiungeva due ragni e li guardava combattere per quelle prede. « Molto strano e difficile da interpretare » , conclude Jaspers. Pare che fossero le uniche volte in cui si vedeva ridere il filosofo, solitamente d’umore cupo » . Nessun materiale è superfluo per i versi di Simic, la cui « spezia segreta » è « il paradosso » . « Per giustificare l’orrenda realtà » , scrive il poeta, « c’è sempre pronta la religione, naturalmente, o una qualche teoria di Realpolitik. Ma se uno non si beve queste teorie, come non me le bevo io? » È di questo che parla la grande poesia: di qualcuno che non si beve il racconto ( distorto dalla retorica dei demagoghi e dei bacchettoni) che il mondo fa di se stesso.