Il direttore d’orchestra che avrebbe potuto (ma non poté) dirigere i due mondi
Il direttore d’orchestra che avrebbe potuto (ma non poté) dirigere i
Morì nello schianto di un aereo nel 1956. Storia dell’uomo che era destinato a contendere a Karajan e a Bernstein il palco sulla scena mondiale della musica sinfonica
Amezzanotte del 24 novembre 1956, un quadrimotore Douglas DC- 6 delle ( allora) Linee Aeree Italiane proveniente da Roma, decollò dall’aeroporto parigino di Orly alla volta di New York. Pochi secondi dopo essersi alzato in volo, l’aeroplano perse quota e si schiantò al suolo appena fuori pista. Perirono i dieci membri dell’equipaggio e tutti i passeggeri a bordo, tranne uno. Ma non si salvò il più famoso: Guido Cantelli, nominato da una settimana direttore dell’orchestra della Scala e successore in pectore di Dimitri Mitropoulos alla testa della New York Philharmonic. Fu quindi lo scettro di maestro concertatore dei Due Mondi che un destino cinico e baro gli negò all’ultimo momento. Il momento storico sembrava di massima allerta, fra l’ingresso dei carri armati sovietici in Ungheria e la crisi di Suez. Ma la notizia fece subito il giro del mondo: era ancora un’epoca in cui il decesso di un ( vero) artista meritava l’onore delle prime pagine. Cantelli aveva da poco compiuto trentasei anni, essendo nato a Novara il 27 aprile 1920, e tutto sembrava sorridergli, con quello sfacciato amore che gli dei, prima o poi, fanno pagare caro ai loro prediletti. Bello, slanciato, elegante, introverso ma autorevole, eloquente ma misurato nei gesti, poteva vantare il carisma e il physique du rôle dei divi del podio. Possedeva insomma il quid che rende affascinante quanto inspiegabile l’arte direttoriale, l’unica che non sia abbinata a uno strumento o alla voce. Ma era solo il riflesso di una severa preparazione al conservatorio di Milano e di una dedizione totale alla musica e agli affetti familiari, con una moglie molto amata e un figlio nato da poco.
Guido Cantelli e il suo talento spezzato
Cantelli era certo dotato, ma non un fenomeno naturale, per molti aspetti ( anche storici) irripetibile, come il suo mentore Toscanini, ricordato di recente su queste colonne. Era stata la forza di volontà a proiettarlo in avanti. La salute cagionevole e l’internamento in guerra, invece di spezzargli una promettente carriera, sembravano aver decuplicato le sue energie, la voglia di dare il meglio di sé. Era romantica anche quell’ansia di perfezionamento, da non confondere con la smania o la cupidigia, motivazioni inferiori, quasi che egli calcolasse già, inconsciamente, il poco tempo rimastogli. Confessò un giorno il rammarico di non essersi ancora cimentato nei grandi cicli del repertorio sinfonico e operistico, Wagner, Bruckner, Mahler. Doveva solo attendere il momento giusto, l’appuntamento non poteva mancare. Nel frattempo allestì alla Piccola Scala la sua prima e ultima messa in scena: un’edizione di Così fan tutte di Mozart diretta e curata nei minimi dettagli, di cui rimane fortunatamente una registrazione, ma soprattutto rimasta indimenticabile per chi ebbe la fortuna di assistervi.
Altra civilità, altra gente. Ormai richiesto in tutto il mondo, osannato dal pubblico sulle due rive dell’Atlantico, corteggiato da agenti, sovrintendenti e case discografiche, Cantelli era entrato di diritto nella terna dei direttori che avrebbero dovuto dominare il dopoguerra, e dei tre era il più giovane: Karajan aveva una dozzina d’anni più di lui, Berstein un paio. All’elenco andrebbero aggiunti almeno Giulini e Celibidache; ma troppo schivo e nemico dei riflettori il primo, troppo imprevedibile e saturnino il secondo. E ancora Franco Ferrara, che alla carriera aveva dovuto rinunciare per una dolorosa malattia. Ho avuto il privilegio di ascoltarli tutti più volte, tranne ovviamente Cantelli. E se dovessi menzionare un’occasione fra cento altre memorabili, tornerei all’inverno 1983, nella Berlino ancora divisa dalla Guerra fredda, con un’Ottava di Bruckner diretta a memoria da Giulini sul podio dei Philharmoniker, di tale rovente intensità che alla fine il pubblico annichilito rimase in silenzio per un tempo che parve lunghissimo ( mezzo minuto, un minuto?) prima di sciogliersi in applausi interminabili. Altra civiltà. Altri uomini. Altra Europa. Furono dunque i primi due a “beneficiare” della scomparsa del rivale- collega, Karajan strappandogli per un decennio la Scala, e Bernstein la New York Philharmonic. Ma quel che resta di Cantelli basta a dare la misura di un talento fuori dal comune, da ammirare e non solo rimpiangere: talento singolarmente moderno, che ab-
binava la chiarezza espressiva toscaniniana a una sorta di contratto pathos interiore, più vicino a De Sabata. Se ascoltiamo le sue grandi incisioni – la Settima di Beethoven, l’Incompiuta di Schubert, l’Italiana di Mendelssohn, l’impareggiabile Quarta di Schumann – avvertiamo nel nitore melodico che le pervade un fondo inquieto e irrisolto, lontano dal gelo apollineo di Karajan come dall’impeto dionisiaco, talvolta un po’ pasticcione, di Bernstein. Perfino in certe tentazioni di enfasi “americana” – come nel Dafni e Cloe di Ravel dal vivo al New York, sommerso dagli applausi del pubblico in delirio – Cantelli si dimostra guardingo. Non credo si possa parlare di approccio intellettuale, quanto di una riluttanza dell’uomo e del musicista a concedersi fino in fondo. E qui sta la modernità. Era passata troppa storia in Europa, prima e dopo il 1945, e anche a lui, come a tanti suoi contemporanei sembrava pesare sulle spalle. Cantelli eseguì varie incursioni nel repertorio novecentesco, fino agli italiani Pizzetti, Ghedini e Petrassi, oggi indegnamente obliati da chi preferisce “comporre” infilando scatolette di sardine nei pianoforti, o imitando i rumori del traffico. Ma non ha mai diretto, a mia conoscenza, l’Histoire du soldat di Stravinskij né i Tre pezzi op.6 di Berg, due partiture che sembravano scritte per lui, e che credo aiutino a capire il rovello che si portava dentro. Franco Mannino, altro grande musicista che mi onorò della sua amicizia, mi disse un giorno che Toscanini si era “impadronito” di Cantelli per strapparlo a De Sabata, che aveva già messo gli occhi addosso sull’esordiente. Può darsi. Ma non credo che il maestro dei maestri avrebbe incoronato, tra i molti pretendenti, chi non ritenesse degno dello scettro. È noto che la notizia della scomparsa del delfino gli fu taciuta, prima che la morte ghermisse anche lui, a quasi novant’anni, di cui settanta trascorsi indomitamente sul podio, nel gennaio 1957. Il grande vecchio, legittimamente stanco e provato, si dedicava ormai ai trilli dei canarini che allevava sul balcone. Chissà che, intuendo la verità, non abbia preferito ignorarla. Capita di fare così, quando il dolore è insostenibile.
Altri casi del destino. D’interpreti strappati prematuramente a un luminoso avvenire non mancano, purtroppo, gli esempi. Basti pensare tra i cantanti a Kathleen Ferrier, tra i pianisti a Dinu Lipatti e Dino Ciani, tra i direttori a Thomas Schippers, affine a Cantelli per diversi aspetti, e Giuseppe Sinopoli. Ma direi che in termini sociali, non solo musicali, Cantelli fu una delle ultime incarnazioni di quel personaggio che sembra essere tramontato nel dopoguerra ( ma forse non del tutto) e che si potrebbe chiamare, senza retorica, l’eroe italiano. E la sua parabola richiama, anche per le date riavvicinate, quella di Fausto Coppi. Strano popolo il nostro, perpetuamente sull’orlo della crisi di nervi, che impara a lamentarsi dalla nascita succhiando il latte materno; ma attratto, nonostante tutto, dal fascino dell’uomo solo al comando. Purché lo scelga bene.