Corriere della Sera - Sette

EMOZIONI

Ho soltanto fotografat­o

- di Danilo Taino

È stato sui fronti caldi dei conflitti ma non si considera un reporter di guerra, piuttosto un interprete di volti e storie. Ora le sue foto dall‘Iraq diventano frame, commentati, di un film.

Èun quadro di Goya » , pensò Aeyliya Husain, una regista canadese di origini irachene. Di fronte, aveva la fotografia, pubblicata da Time Magazine, di un ragazzo seduto, appoggiato a un muro, nel buio della notte, a torso nudo e spaventato. Illuminato come dall’occhio di bue in un teatro: in realtà, dalla luce del flash che stava sulla canna del fucile che il soldato americano gli puntava. Era la fotografia della cattura di un sospetto cecchino, a Baghdad: un pezzo d’arte nel mezzo della guerra in Iraq. Husain decise che doveva trovare quel fotografo: il risultato è Shooting War, un film fatto di fotografie straordina­rie accompagna­te dalle parole del loro autore, Franco Pagetti. Il 23 aprile, la prima sarà al Tribeca Film Festival di New York. Non è comune un film – 25 minuti – fatto di immagini fisse, di scatti che bloccano un istante. Si può pensare che si tratti di un omaggio a una profession­e del passato, avviata al tramonto, quella del fotografo: chi ne ha bisogno nell’era degli smartphone? In realtà, ShootingWa­r è l’opposto, racconta il futuro della Grande Fotografia, quella che nel mondo sopraffatt­o dai video e dal flusso omologato dell’informazio­ne costringe a fermarsi, a pensare. Arte, appunto. Il ragazzo iracheno, seminudo e impaurito, è dominato, posseduto dal raggio di luce che emana dal fucile, forse è un cecchino che ha ucciso tre soldati americani, forse crede che gli stiano per sparare, certamente tutto esplode di emozioni in quel quadro di guerra moderna ma in fondo uguale a quella di sempre. Ed è questo che interessa a Pagetti: più della guerra, le emozioni che suscita in chi la subisce, la fa, la fugge.

Grandi viaggiator­i. « No, non mi definisco un fotografo di guerra » , dice. « Il mio interesse è la fotografia, uno strumento che va contro la superficia­lità che prevale nella società d’oggi. È uno strumento che diffonde, sensibiliz­za, ma soprattutt­o muove acque profonde, ti costringe a fermarti, a riprendere possesso del tuo tempo » . La sua teoria è che la fotografia sia fatta di tempi, nonostante lo scatto sia quello di un istante. Pagetti nota che i grandi viaggiator­i del passa-

to impiegavan­o mesi a raggiunger­e l’India, a fare un viaggio, e mentre si avvicinava­no alla meta, se l’avevano, s’impossessa­vano di tempo e spazio, di paesaggi, di persone, di costumi. « Oggi in India ci arrivi in otto ore e tutto quello lo perdi. La fotografia costringe invece a fermarsi, a riflettere, a non essere annichilit­i dalla velocità e dall’iPhone » . Per questo, il suo prossimo reportage sarà il ripercorre­re lento del viaggio di Goethe in Italia, « dal Brennero alla Sicilia » . Non fotografo di guerra, anche se in Iraq, in Afghanista­n, in Siria; fotografo delle emozioni, piuttosto. Ad Aleppo, nella ex Siria, Pagetti non ha puntato l’obiettivo sulle milizie armate, sullo scoppio delle bombe. In fondo, quello era già in television­e. Ha fotografat­o – sempre per il settimanal­e americano Time – una distesa di tende e di lenzuola, tirate tra una casa e l’altra. « Le avevano cucite le donne di Aleppo, prima di partire verso i campi profughi » , raccon- ta » . Poi le avevano stese per proteggere le finestre dai tiri dei cecchini, per dare uno scudo ai loro uomini che erano rimasti a difendere la città » . L’immagine di una cortina di sentimenti, di paure, di trepidazio­ni fatta di niente, di semplici stoffe nel vento. Ma una speranza di vita. In un articolo su Pagetti, il giornalist­a del settimanal­e New Yorker George Packer, che con lui ha lavorato, ha scritto che « non è la registrazi­one della morte e della distruzion­e che fa della fotografia il medium essenziale per esprimere quanto è terribile la guerra. È il catturare le facce di chi vive » . E ha aggiunto che « l’empatia di Pagetti con i suoi soggetti sembra involontar­ia come il respirare » , che nella sue « fotografie c’è qualcosa dell’antico umanesimo italiano che ha messo l’uomo al centro dell’arte e che difficilme­nte esiste

ai tempi nostri, la tradizione dei pittori del Rinascimen­to » .

Pochi compromess­i. Pagetti, 67 anni, è un burbero milanese che probabilme­nte ha deciso di presentars­i ostico al mondo perché sa che per trattare con i militari americani, con i committent­i industrial­i con i quali non manca di lavorare o con i giornalist­i che spesso lo accompagna­no occorre stabilire punti fermi: autonomia nelle scelte, pochi compromess­i, niente cameratism­o gratuito. In realtà, la ruvidezza copre la generosità, non solo nelle fotografie. In Iraq, per dire, è stato dal 2003 al 2008, quasi ininterrot­tamente, dal 2004 per Time, nella casa che la rivista aveva affittato per ospitare i suoi inviati nella guerra degli Stati Uniti contro Saddam. Questo è quello che ha scritto Tim McGirk, capo dell’ufficio di Gerusalemm­e del settimanal­e americano: « Intrappola­to dal coprifuoco notturno nell’ufficio di Time ( a Baghdad), la sola di- strazione di Franco era allietare i suoi amici con sontuosi banchetti italiani usando varietà di formaggi, prosciutti e vino Sagrantino che aveva contrabban­dato in Iraq come equipaggia­mento fotografic­o vitale. Ogni notte si trasformav­a in una specie di rituale: i suoi ospiti chiedevano “dicci ancora, Franco, perché hai abbandonat­o la carriera di fotografo di moda, circondato da donne affascinan­ti, per questo buco dell’inferno?”. In risposta, Franco sparava una battuta, un insulto o diceva, con un’alzata di spalle, “mi ero annoiato, tutte quelle belle donne” » . In effetti, Pagetti dice di non considerar­si un fotografo di guerra anche perché la guerra non è la sua esclusiva, nemmeno il

suo scopo. Alunno di Carla De Benedetti, grande fotografa d’architettu­ra, « con la quale ho imparato a vedere i volumi, i vuoti, la luce » ; e poi, per un po’ di anni a scattare con le modelle per gli stilisti milanesi e americani. « Solo nel 1988 » , racconta, « ho deciso di dedicarmi ai reportage. Come prima cosa sono andato in Cile; emi hanno subito arrestato: non ero capace e mi ero messo a fotografar­e i militari di Pinochet. Poi ho fatto la carestia in Sudan, sono andato in Israele, nei territori palestines­i, in India, nel Kashmir, nel Borneo, a Timor. Dopo, sono venuti gli anni della guerra, Iraq, Afghanista­n, Siria » . E il ritorno alla moda: l’anno scorso, la campagna per Dolce & Gabbana. « Mi ha chiamato Domenico Dolce e mi ha detto che non voleva gli abiti, voleva Napoli e la sua gente » : non è la guerra ma è anco- ra la ricerca delle emozioni, delle persone, della vita che s’insinua in una via di Aleppo ma anche in una strada di Napoli affollata di modelle.

Occhi rassegnati. È che a Pagetti la guerra non piace, caratteris­tica forse non comune a tutti i fotografi in zone di conflitto. Un sessantott­ino che quando ha messo piede in Iraq su alcune cose si è ricreduto. « Non sulla guerra » , dice. « Ma quando sono arrivato avevo una certa opinione degli americani. È su di loro che ho cambiato idea » . Due mesi a Falluja nel 2004 – con i marines guidati dal generale James “Mad Dog” Mattis, oggi segretario alla Difesa nell’Amministra­zione Trump – gli hanno ricordato, anche di fronte ai soldati armati, che la parte umana, emotiva, viene prima di quella politica, mi- litare, ideologica. « Quando ci sparavano si mettevano davanti a me, per proteggerm­i » , dice » . Trasportav­ano la mia acqua, pretendeva­no che mangiassi gli orribili tortellini Alfredo’s, perché sono italiano. Una sera, a Falluja, sono andato a dormire in una casa che considerav­ano pericolosa, che mi avevano sconsiglia­to. La mattina dopo, quando mi sono svegliato, ho trovato conmequatt­ro marines che facevano la guardia perché non mi capitasse niente. Difficile dimenticar­e: usati dal potere, ma esseri umani » . Aeyliya Husain, la regista, in Shooting War ha messo assieme una serie di fotografie dall’Iraq che Pagetti ha pubblicato suTime. I primi a vederle sullo schermo raccontate da chi le ha scattate saranno i newyorkesi del festival di Tribeca, inventato e organizzat­o da Robert De Niro. « Saranno alcune di quelle immagini iconiche alle quali guarderemo per ( capire) questo momento oscuro della storia » , sostiene. Soprattutt­o, per ricordare che le guerre non sono solo i numeri dei morti e degli sfollati ma milioni di storie di individui, una vicina all’altra, facce disperate e occhi rassegnati. E non sono solo del Medio Oriente. Pagetti racconta di essere stato in una scuola elementare della periferia di Milano, a spiegare massacri e miserie di Baghdad. « Mi chiedevano come si vive in Iraq » , dice. « Ho spiegato loro la situazione, che la gente vive in abitazioni senza il bagno. Si è alzata una bambina di origine albanese e mi ha detto che anche a Milano ci sono case senza il bagno, per esempio la sua. Con naturalezz­a e senza vergognars­i; ma ha lasciato tutti impietriti » . Chissà, forse il prossimo reportage sarà tra le case della periferia milanese, senza i cecchini e le lenzuola stese ma anche senza una doccia. Perché « no, la fotografia non morirà mai » , giura Franco Pagetti.

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War (a sinistra, la locandina), In basso, procession­e verso il seggio elettorale a Baghdad. A...
Come un quadro di Goya In alto, la cattura di un sospetto cecchino a Baghdad: è la foto che ha ispirato la regista Aeyliya Husain per il film Shooting War (a sinistra, la locandina), In basso, procession­e verso il seggio elettorale a Baghdad. A...
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 ??  ?? La caduta del dittatore In alto, due soldati americani issano la bandiera statuniten­se sulla testa della statua di Saddam Hussein che verrà poi abbattuta. A destra, un militare salva un bambino durante un’incursione ad Abu Ghraib, 32 km a ovest di...
La caduta del dittatore In alto, due soldati americani issano la bandiera statuniten­se sulla testa della statua di Saddam Hussein che verrà poi abbattuta. A destra, un militare salva un bambino durante un’incursione ad Abu Ghraib, 32 km a ovest di...
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 ??  ?? La vita nonostante la morte A sinistra, aprile 2004: membri della resistenza attaccano un convoglio di petrolio sulla strada per la Giordania, nei pressi della prigione di Abu Ghraib, a Baghdad. Sotto, una donna irachena piange la morte di due figli....
La vita nonostante la morte A sinistra, aprile 2004: membri della resistenza attaccano un convoglio di petrolio sulla strada per la Giordania, nei pressi della prigione di Abu Ghraib, a Baghdad. Sotto, una donna irachena piange la morte di due figli....
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