EMOZIONI
Ho soltanto fotografato
È stato sui fronti caldi dei conflitti ma non si considera un reporter di guerra, piuttosto un interprete di volti e storie. Ora le sue foto dall‘Iraq diventano frame, commentati, di un film.
Èun quadro di Goya » , pensò Aeyliya Husain, una regista canadese di origini irachene. Di fronte, aveva la fotografia, pubblicata da Time Magazine, di un ragazzo seduto, appoggiato a un muro, nel buio della notte, a torso nudo e spaventato. Illuminato come dall’occhio di bue in un teatro: in realtà, dalla luce del flash che stava sulla canna del fucile che il soldato americano gli puntava. Era la fotografia della cattura di un sospetto cecchino, a Baghdad: un pezzo d’arte nel mezzo della guerra in Iraq. Husain decise che doveva trovare quel fotografo: il risultato è Shooting War, un film fatto di fotografie straordinarie accompagnate dalle parole del loro autore, Franco Pagetti. Il 23 aprile, la prima sarà al Tribeca Film Festival di New York. Non è comune un film – 25 minuti – fatto di immagini fisse, di scatti che bloccano un istante. Si può pensare che si tratti di un omaggio a una professione del passato, avviata al tramonto, quella del fotografo: chi ne ha bisogno nell’era degli smartphone? In realtà, ShootingWar è l’opposto, racconta il futuro della Grande Fotografia, quella che nel mondo sopraffatto dai video e dal flusso omologato dell’informazione costringe a fermarsi, a pensare. Arte, appunto. Il ragazzo iracheno, seminudo e impaurito, è dominato, posseduto dal raggio di luce che emana dal fucile, forse è un cecchino che ha ucciso tre soldati americani, forse crede che gli stiano per sparare, certamente tutto esplode di emozioni in quel quadro di guerra moderna ma in fondo uguale a quella di sempre. Ed è questo che interessa a Pagetti: più della guerra, le emozioni che suscita in chi la subisce, la fa, la fugge.
Grandi viaggiatori. « No, non mi definisco un fotografo di guerra » , dice. « Il mio interesse è la fotografia, uno strumento che va contro la superficialità che prevale nella società d’oggi. È uno strumento che diffonde, sensibilizza, ma soprattutto muove acque profonde, ti costringe a fermarti, a riprendere possesso del tuo tempo » . La sua teoria è che la fotografia sia fatta di tempi, nonostante lo scatto sia quello di un istante. Pagetti nota che i grandi viaggiatori del passa-
to impiegavano mesi a raggiungere l’India, a fare un viaggio, e mentre si avvicinavano alla meta, se l’avevano, s’impossessavano di tempo e spazio, di paesaggi, di persone, di costumi. « Oggi in India ci arrivi in otto ore e tutto quello lo perdi. La fotografia costringe invece a fermarsi, a riflettere, a non essere annichiliti dalla velocità e dall’iPhone » . Per questo, il suo prossimo reportage sarà il ripercorrere lento del viaggio di Goethe in Italia, « dal Brennero alla Sicilia » . Non fotografo di guerra, anche se in Iraq, in Afghanistan, in Siria; fotografo delle emozioni, piuttosto. Ad Aleppo, nella ex Siria, Pagetti non ha puntato l’obiettivo sulle milizie armate, sullo scoppio delle bombe. In fondo, quello era già in televisione. Ha fotografato – sempre per il settimanale americano Time – una distesa di tende e di lenzuola, tirate tra una casa e l’altra. « Le avevano cucite le donne di Aleppo, prima di partire verso i campi profughi » , raccon- ta » . Poi le avevano stese per proteggere le finestre dai tiri dei cecchini, per dare uno scudo ai loro uomini che erano rimasti a difendere la città » . L’immagine di una cortina di sentimenti, di paure, di trepidazioni fatta di niente, di semplici stoffe nel vento. Ma una speranza di vita. In un articolo su Pagetti, il giornalista del settimanale New Yorker George Packer, che con lui ha lavorato, ha scritto che « non è la registrazione della morte e della distruzione che fa della fotografia il medium essenziale per esprimere quanto è terribile la guerra. È il catturare le facce di chi vive » . E ha aggiunto che « l’empatia di Pagetti con i suoi soggetti sembra involontaria come il respirare » , che nella sue « fotografie c’è qualcosa dell’antico umanesimo italiano che ha messo l’uomo al centro dell’arte e che difficilmente esiste
ai tempi nostri, la tradizione dei pittori del Rinascimento » .
Pochi compromessi. Pagetti, 67 anni, è un burbero milanese che probabilmente ha deciso di presentarsi ostico al mondo perché sa che per trattare con i militari americani, con i committenti industriali con i quali non manca di lavorare o con i giornalisti che spesso lo accompagnano occorre stabilire punti fermi: autonomia nelle scelte, pochi compromessi, niente cameratismo gratuito. In realtà, la ruvidezza copre la generosità, non solo nelle fotografie. In Iraq, per dire, è stato dal 2003 al 2008, quasi ininterrottamente, dal 2004 per Time, nella casa che la rivista aveva affittato per ospitare i suoi inviati nella guerra degli Stati Uniti contro Saddam. Questo è quello che ha scritto Tim McGirk, capo dell’ufficio di Gerusalemme del settimanale americano: « Intrappolato dal coprifuoco notturno nell’ufficio di Time ( a Baghdad), la sola di- strazione di Franco era allietare i suoi amici con sontuosi banchetti italiani usando varietà di formaggi, prosciutti e vino Sagrantino che aveva contrabbandato in Iraq come equipaggiamento fotografico vitale. Ogni notte si trasformava in una specie di rituale: i suoi ospiti chiedevano “dicci ancora, Franco, perché hai abbandonato la carriera di fotografo di moda, circondato da donne affascinanti, per questo buco dell’inferno?”. In risposta, Franco sparava una battuta, un insulto o diceva, con un’alzata di spalle, “mi ero annoiato, tutte quelle belle donne” » . In effetti, Pagetti dice di non considerarsi un fotografo di guerra anche perché la guerra non è la sua esclusiva, nemmeno il
suo scopo. Alunno di Carla De Benedetti, grande fotografa d’architettura, « con la quale ho imparato a vedere i volumi, i vuoti, la luce » ; e poi, per un po’ di anni a scattare con le modelle per gli stilisti milanesi e americani. « Solo nel 1988 » , racconta, « ho deciso di dedicarmi ai reportage. Come prima cosa sono andato in Cile; emi hanno subito arrestato: non ero capace e mi ero messo a fotografare i militari di Pinochet. Poi ho fatto la carestia in Sudan, sono andato in Israele, nei territori palestinesi, in India, nel Kashmir, nel Borneo, a Timor. Dopo, sono venuti gli anni della guerra, Iraq, Afghanistan, Siria » . E il ritorno alla moda: l’anno scorso, la campagna per Dolce & Gabbana. « Mi ha chiamato Domenico Dolce e mi ha detto che non voleva gli abiti, voleva Napoli e la sua gente » : non è la guerra ma è anco- ra la ricerca delle emozioni, delle persone, della vita che s’insinua in una via di Aleppo ma anche in una strada di Napoli affollata di modelle.
Occhi rassegnati. È che a Pagetti la guerra non piace, caratteristica forse non comune a tutti i fotografi in zone di conflitto. Un sessantottino che quando ha messo piede in Iraq su alcune cose si è ricreduto. « Non sulla guerra » , dice. « Ma quando sono arrivato avevo una certa opinione degli americani. È su di loro che ho cambiato idea » . Due mesi a Falluja nel 2004 – con i marines guidati dal generale James “Mad Dog” Mattis, oggi segretario alla Difesa nell’Amministrazione Trump – gli hanno ricordato, anche di fronte ai soldati armati, che la parte umana, emotiva, viene prima di quella politica, mi- litare, ideologica. « Quando ci sparavano si mettevano davanti a me, per proteggermi » , dice » . Trasportavano la mia acqua, pretendevano che mangiassi gli orribili tortellini Alfredo’s, perché sono italiano. Una sera, a Falluja, sono andato a dormire in una casa che consideravano pericolosa, che mi avevano sconsigliato. La mattina dopo, quando mi sono svegliato, ho trovato conmequattro marines che facevano la guardia perché non mi capitasse niente. Difficile dimenticare: usati dal potere, ma esseri umani » . Aeyliya Husain, la regista, in Shooting War ha messo assieme una serie di fotografie dall’Iraq che Pagetti ha pubblicato suTime. I primi a vederle sullo schermo raccontate da chi le ha scattate saranno i newyorkesi del festival di Tribeca, inventato e organizzato da Robert De Niro. « Saranno alcune di quelle immagini iconiche alle quali guarderemo per ( capire) questo momento oscuro della storia » , sostiene. Soprattutto, per ricordare che le guerre non sono solo i numeri dei morti e degli sfollati ma milioni di storie di individui, una vicina all’altra, facce disperate e occhi rassegnati. E non sono solo del Medio Oriente. Pagetti racconta di essere stato in una scuola elementare della periferia di Milano, a spiegare massacri e miserie di Baghdad. « Mi chiedevano come si vive in Iraq » , dice. « Ho spiegato loro la situazione, che la gente vive in abitazioni senza il bagno. Si è alzata una bambina di origine albanese e mi ha detto che anche a Milano ci sono case senza il bagno, per esempio la sua. Con naturalezza e senza vergognarsi; ma ha lasciato tutti impietriti » . Chissà, forse il prossimo reportage sarà tra le case della periferia milanese, senza i cecchini e le lenzuola stese ma anche senza una doccia. Perché « no, la fotografia non morirà mai » , giura Franco Pagetti.