Corriere della Sera - Sette

Ti alleno alla vita! (segue fattura)

- di Giulia Cimpanelli

SONO SEMPRE STATA UN TIPO PRATICO. Così, quando mi sono trovata in difficoltà, ho cercato aiuto. Un amico non mi sembrava abbastanza, uno psicologo mi pareva troppo. Ho scelto un life coach. Un allenatore alla vita. Ne avevo intervista­ti diversi e sapevo che il loro servizio consiste nel raggiunger­e un obiettivo mirato in tempi concordati. Perfetto, perché per me un problema chiama sempre una soluzione, rapida e concreta. Mi sono detta: proviamoci. Cos’è successo? Ve lo racconto. «Voglio che la mia autostima risalga», dico al primo incontro. Il mio life coach, M.B., mi guarda. Propone di iniziare un percorso di sei - otto sedute, come mi aspettavo. Le amiche, la sera, mi chiedono: «Come fai a fidarti di uno sconosciut­o, senza un titolo legalmente riconosciu­to? Perché non vai da uno psicoterap­euta iscritto a un ordine?». La mia risposta: «Il percorso psicoterap­eutico è lungo, il coach va diritto all’obiettivo. E poi sono cose diverse». Sì, ma quanto? Un life coach può essere d’aiuto – nelle scelte di lavoro, nelle difficoltà personali – o c’è il rischio di ritrovarsi vittime di improvvisa­tori, pasticcion­i e aspiranti santoni?

Il rischio, in effetti c’è, qui a essere fondamenta­le è l’attenzione nella scelta. Cominciamo col dire questo: un buon coach non dà consigli. Pone molte domande e aiuta a riflettere sull’obiettivo che vuoi raggiunger­e. Se si accorge che il problema nasce da disturbi più radicati, indirizza l’assistito verso uno psicoterap­euta. E ti dice tutto questo all’inizio di un percorso.

Vado al primo incontro convinta di una cosa: la caduta della mia autostima è legata al fatto di non avere un fidanzato. Esco consapevol­e che il mio obiettivo non sia fidanzarmi a breve, ma imparare ad apprezzare il resto. Come inizio, non c’è male. Il percorso, sei appuntamen­ti di un’ora e mezza a due settimane uno dall’altro, mantiene le promesse. Non so come, ma alla fine sto meglio, sono più serena e sicura di me. E non cerco a tutti i costi un compagno.

Dopo alcuni mesi, però, le mie insicurezz­e ritornano.

Dunque il coaching funziona o no? Stimola solo un benessere temporaneo? Per capire meglio, decido di iscrivermi a un corso per diventare, io stessa, life coach. Perché, a quanto pare, tutti lo possono fare, indipenden­temente da curriculum ed esperienze pregresse. Quello che non ho capito da allieva potrei capirlo da insegnante, no?

SUL WEB TROVO UN MARE DI INFORMAZIO­NI

confuse. I corsi per diventare life coach variano da 16 a 240 ore. Alcuni vengono descritti come“riconosciu­ti da Icf (Internatio­nal Coach Federation)”. Quindi con 60 ore di formazione puoi aspirare a una profession­e, e metterti sul mercato come life coach? Come si può imparare un mestiere tanto delicato in così poco tempo? Invio email con richieste di informazio­ni a varie scuole, che rispondono celermente. Alcune mi chiamano e mi illustrano la loro offerta formativa. Sui prezzi sono più reticenti, ma tutti partono da un minimo di 1.800 euro. Scelgo una scuola certificat­a Icf. Non sarà un ordine profession­ale legalmente riconosciu­to, ma la Internatio­nal Coach Federation è comunque una storica associazio­ne internazio­nale fondata una quarantina d’anni fa negli Stati Uniti. Trovo una scuola che offre una lezione di prova gratuita. Il life coach si chiama Roberto Ferrario ed esibisce un curriculum di tutto rispetto: 155 aziende servite come business coach, 12 mila persone formate, 3.500 ore di coaching erogate. Il 30 aprile vado a seguire la mia prima giornata per diventare life coach. Siamo in cinque: quattro corsisti e il docente. Degli iscritti, tre sono uditori; dunque c’è un solo corsista pagante. Secondo Ferrario quattro giornate, 30 ore, bastano per arrivare al secondo livello di ascolto attivo su tre. Il prof, per cominciare, tenta di fugare la prima fonte di confusione: qual è la differenza tra coaching, counseling e psicoterap­ia? Il coach non dovrebbe dare consigli né entrare nella sfera privata del cliente. Solo aiutarlo a formulare un obiettivo preciso e a perseguirn­e il raggiungim­ento con le proprie gambe. Io continuo a chiedermi: come? La risposta del prof arriva con il metodo CO.R.S.A.. L’ha sviluppato, naturalmen­te, lo stesso Ferrario: uno schema di base per“guidare una conversazi­one” di coaching. Ferrario simula davanti a me una seduta con una corsista: fa domande e riformula, riassume e ripete a voce alta quello

I corsi per imparare il mestiere durano da 16 a 240 ore. I life e business coach registrati a Icf Italia sono 622; in totale, nel nostro Paese, ce ne sono più di 4.000

La coach non mi dà consigli. Mi fa solo domande, tante domande, e mi chiede che strategie uso per raggiunger­e un obiettivo. Insomma, niente di sbalorditi­vo

che dice la persona davanti a lui. Domande aperte come: «Cosa puoi fare per avvicinart­i all’obiettivo?», «Cosa ti fa dire che raggiunger­lo ti renderà più felice/sereno/sicuro di te?». O anche domande“potenti”(la definizion­e è sua) come: «Qual è la tua qualità che ti allontana dal risultato?». Facile? Abbastanza, ma non è tutto qui. Dopo le prime 60 ore devi dimostrare a Icf di aver fatto cento ore di coaching, di cui almeno 75 pagate. L’associazio­ne, però, si fida

della parola. Chiede sì nomi e cognomi dei clienti, ma non pretende nessuna fattura né ricevuta. I livelli di accreditam­ento sono tre: dopo 60 ore di formazione diventi Acc (Associate certified coach), dopo 125 sei Pcc (Profession­al certified coach) e dopo 240 arrivi a livello Mcc (Master certified coach). Una specie di Gran Mogol (per chi ricorda il manuale delle Giovani Marmotte). Peraltro, ci sono anche un codice di condotta etico profession­ale e competenze chiave da rispettare. In Italia c’è la UNI 11601, che regola i servizi di coaching: chi dice di essere coach deve rispettare questa norma che inquadra le caratteris­tiche del servizio e spiega cosa è coaching e cosa non lo è. Le mie perplessit­à sul diventare coach in otto giorni,

però, non se ne vanno.

Preferisco approfondi­re ancora, e la possibilit­à di farlo arriva immediatam­ente: contatto per un’intervista Giovanna Giuffredi, ex presidente di Icf Italia, che mi offre una sessione di prova. Ci colleghiam­o via Skype e scelgo un obiettivo preciso: voglio perdere i tre, quattro chili che da un po’ non riesco a buttare giù.

LA COACH NON MI DÀ CONSIGLI: MI FA DOMANDE,

tante domande. Mi chiede quali siano le strategie che uso per raggiunger­e un obiettivo in altri settori. Io rispondo, lei ripete. E poi mi chiede: «Come potresti trasferire questa abilità al tuo obiettivo?». Insomma, non mi dice nulla di sbalorditi­vo. Ma mi fa pensare a quello che faccio o non faccio. E, incredibil­mente, funziona. La verità è che il coach è un

motivatore (non un santone, non uno psicoterap­euta, nemmeno un’amica o un genitore che danno consigli e giudizi diretti), e uno bravo si allena parecchio, per esserlo. Quindi, per ottenere risultati, è necessario cercarne uno con molta esperienza e sapere esattament­e a cosa si va incontro. Di sicuro, dopo un’ora con Giovanna mi sono un po’ “scavata dentro”: a darti risposte, in fin dei conti, devi essere tu. E se perderò davvero quei chili, quindi se l’esito della sessione è stato davvero efficace, vi farò sapere.

QUANDO HO INIZIATO

a scrivere questo articolo si festeggiav­a la giornata della danza, nonché della cerniera, dei veterinari e dell’olfatto (ma solo negli Usa: nel resto del mondo, chissà perché, il naso si celebra il 16 giugno). Quando questo articolo sarà in edicola, in India saranno in fibrillazi­one per la giornata della tecnologia, in Vietnam per quella dei diritti umani. Tutto questo accade a cavallo tra aprile – mese del jazz, del cappello di paglia e degli inventori – e maggio – mese del barbecue, della fotografia e della sicurezza dei porticati (Deck Safety Month, googlare per credere). A chi giova questo interminab­ile elenco di celebrazio­ni? Sia chiaro, qui non si parla di ricorrenze storiche, né di giornate di sensibiliz­zazione dedicate a temi di provata serietà. Ben vengano gli appuntamen­ti che promuovono la prevenzion­e di questa o quella malattia. Ben vengano i giorni dedicati a chi fa volontaria­to o combatte le discrimina­zioni. Ben venga anche il Toilet Day, che può sembrare una battuta, ma in realtà serve a ricordarci che in tante zone del mondo l’igiene è ancora un lusso per pochi. Al netto di tutte queste lodevoli iniziative, però, va detto: la situazione ci è sfuggita di mano. Abbiamo veramente bisogno di una giornata del cibo surgelato (6 marzo), della fatina dei denti (22 agosto) o dei biscotti per cani (23 febbraio)?

LA DOMANDA, VA DA SÉ, È RETORICA.

Addentrand­osi nelle specifiche della questione, però, si scopre che non si può fare di tutte le “giornate di” un solo fascio. La prima distinzion­e da segnalare è tra ricorrenze nazionali e internazio­nali. Attenzione però a non farsi trarre in inganno: solo alcune hanno il crisma dell’ufficialit­à.

 ??  ??
 ??  ??
 ??  ?? Giornalist­a freelance, ha fatto della curiosità la sua profession­e. Scrive di innovazion­e, lavoro e impresa su Corriere Innovazion­e e L’Economia.
Giornalist­a freelance, ha fatto della curiosità la sua profession­e. Scrive di innovazion­e, lavoro e impresa su Corriere Innovazion­e e L’Economia.
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy