Quelli dello Scalone (di via Solferino 28, Milano)
Nel primo di una serie di ritratti dei protagonisti della storia del Corriere, raccontiamo Dino Buzzati. Che, nel suo romanzo più famoso, Il deserto dei Tartari, descrive l’attesa e ci invita a vivere il presente
IL PORTONE D’INGRESSO del Corriere della Sera è piccolo e stretto, ma se si avvicina il naso al vetro è possibile vederla; la si intuisce salire, dietro una seconda grande vetrata, compiendo un’inversione a U verso sinistra. Il tappeto rosso, il corrimano di legno, i muri di marmo chiaro. È la scala della memoria, lo “Scalone”, come viene chiamato in via Solferino 28, che da sempre porta al primo piano, dove si trovano gli uffici del direttore e della direzione. La prima volta che l’ho percorso mi batteva il cuore, e ancora mi batte dopo molti anni, non soltanto per l’età che avanza. Ma perché salirlo è come fare ogni volta un viaggio, è sfiorare la storia, annusarne il profumo. È entrare, attraverso 32 gradini, nel passato di queste pagine che hanno appena compiuto 140 anni. Sulla parete destra che accompagna lo Scalone sono appesi i ritratti di alcuni delle grandi firme che hanno lavorato per il Corriere dalla sua nascita a oggi. I loro volti accompagnano passo dopo passo la scalata al piano nobile. Osservano come sentinelle chi sale e chi scende, ricordando, ammonendo, mostrando un tempo che non c’è più, ma che filtra ancora dalle pareti. Un passato fatto di eleganza, serietà, dedizione, lavoro. E silenzio. Ecco dunque Tommaso Landolfi, Paolo Monelli, Max David; ecco Benedetto Croce, Luigi Einaudi, Luigi Pirandello, Grazia Deledda. Ed ecco Dino Buzzati, fotografato mentre lavora al tavolo di redazione. Giacca scura, camicia bianca e cravatta, i gomiti giù dalla scrivania e i capelli corti, pettinati con una scriminatura che sembra fatta con il righello. Dino Buzzati: che in via Solferino lavorò per oltre quarant’anni e che proprio dalla vita vissuta lì dentro ebbe l’ispirazione per il suo romanzo più celebre, Il deserto dei Tartari.
RACCONTANDO L’ESISTENZA
di Giovanni Drogo nella Fortezza Bastiani – trasposizione letteraria proprio del Corriere della Sera – Buzzati non ha raccontato soltanto la vita al giornale, ma la vita stessa. Ne ha mostrato la precarietà e le insidie, le speranze e le illusioni; e, soprattutto, ci ha mostrato la fuga del tempo. Nessun luogo del mondo, più di un giornale, diceva, ne è lo specchio fedele. E attraverso il logorio dell’attesa ci ha lanciato un’ammonizione a vivere il presente, senza mai abbandonare i nostri sogni, da inseguire fino in fondo, costi quel che costi. Ci ha trasmesso il valore della fedeltà, del consacrarsi a una missione; l’importanza dell’obbedienza e del sacrificio. Con il ritratto del tenente Drogo, Buzzati ha esaltato la forza dell’antieroe. Ci ha detto che dietro a una (apparente) sconfitta può nascondersi una vittoria personale. Gli piacevano le favole. Le storie di elfi e streghe, di boschi e gazze parlanti. E di fantasmi. Raccontandole ci ha rivelato che la realtà non è sempre come sembra. E può bastare una carta che cade da un tavolo o una nuvola che oscura il sole per romperne l’equilibrio. La sua predisposizione al fantastico, eredità di un’infanzia popolata dai misteri delle montagne e dagli scricchiolii notturni nella vecchia casa di famiglia, ha permesso ai suoi lettori di guardare al di là del velo che separa il nostro da un
“altro mondo” parallelo. Tagliando, anche di poco, quel velo, ha mostrato che cosa c’è dietro. «Un mondo – scriveva Indro Montanelli – del quale nessuno meglio di Buzzati sapeva captare i messaggi e decifrarli per noi».
COME GIORNALISTA Buzzati ha saputo prestare i suoi occhi al lettore e far parlare i sentimenti. Non vergognandosi, se necessario, anche di mettersi a nudo. Come fece nelle prime righe dell’articolo sul disastro del Vajont: «Stavolta, per me, è una faccenda personale. Perché quella è la mia terra, quelli i miei paesi, quelle le mie montagne, quella la mia gente. E scriverne è difficile». Come uomo Dino Buzzati ci ha insegnato a essere liberi: dai pregiudizi, dalle convenzioni, dalle etichette. Lui, così orgoglioso della sua educazione borghese eppure nello stesso tempo rivoluzionario; uomo di stampo ottocentesco e contemporaneamente uomo moderno, in naturale sintonia con i tempi (quando addirittura non in anticipo su di essi). Attraverso l’esperienza personale ha mostrato i tormenti e le umiliazioni di un cinquantenne per una giovanissima ragazza squillo ( Un amore). Servendosi del mito di Orfeo ed Euridice come l’avrebbero cantato i Beatles ci ha mostrato l’Aldilà ( Poema a fumetti). E attraverso la rappresentazione della morte, fondamento della sua poetica, ha esaltato la bellezza della vita, invitandoci a coglierla. Perché sono le angosce, gli incubi, i desideri roventi, sono i misteri, i segreti, i batticuori, le pene il vero sale della vita. Le ragioni che la rendono degna di essere vissuta. Forse anche per questo, come raccontava la moglie Almerina, quando scendeva la sera sulla sua casa affacciata sui giardini pubblici dove gli animali dello zoo gli parlavano, Dino Buzzati, all’ultimo piano, spalancava le finestre per sentire le voci, i motori delle auto e lo sferragliare del tram. Per sentire il suono della vita.