Corriere della Sera - Sette

Piccoli Pugni Cubani

Nell’isola il ring non è sinonimo di violenza ma di sacrificio, disciplina, amicizia, rivalsa sociale. E, grazie a Samuel “il bolognese”, è anche un modo per togliere i ragazzi dalla strada

- DI A LESSIO R IBAUDO FOTO DI A LESSANDRO C INQUE

GUARDIA, SCHIVA, DESTRO, GUARDIA. Yoangel ha 11 anni e ripete l’esercizio con determinaz­ione: guardia, schiva, destro, guardia. Non lo esegue ancora bene. Almeno secondo i canoni della perfezione che ha in mente l’uomo che ha davanti: avrà circa sessant’anni, la voce stentorea, indossa una coppola bianca che copre la calvizie e una canottiera che non riesce a nascondere la pancia. L’apparenza, però, inganna. In una frazione di secondo, l’uomo si mette in guardia e mima: guardia, schiva, destro, guardia. Un manuale vivente su come si boxa. È José Gómez, nel 1980 ha vintola medaglia d’ oro all’ Olimpiade di Mosca e oggi, a 58 anni, incarna lo spirito del“profe”(il maestro): ora buono ora burbero.Yoangel lo guarda ammirato e riprova: guardia, schiva, destro, guardia. Intorno a loro è tutto un vociare allegro di una quarantina di ragazzi fra i7 e i 20 anni. Alcuni fanno fiato correndo, altri sferrano colpi contro avversari immaginari e altri ancora si allenano portando colpi con i guantoni contro il muro. Benvenuti al Gimnásio de boxeo

“Niños de Cuba”, in Calle San José, nel barrio Colón, del Centro Havana. È il quartiere più bandolero (complicato), a due passi dal Capitolio Nacional, fra palazzi malconci e quelli con voglia di modernità. Qui, nel 2012, il governo ha deciso di abbattere un condominio fatiscente che, però, dopo la demolizion­e, era diventato un angolo che i niños (ragazzi) di strada frequentav­ano non sempre, purtroppo, pacificame­nte. «Ho vissuto in questo quartiere perché per anni sono stato una guida turistica e vedevo tanta povertà» spiega Samuel Fabbri, bolognese di 54 anni, che oggi è consulente di una multinazio­nale. «Alla fine chiedevo ai clienti di regalare ai bimbi cibo, medicine e persino le bottigliet­te di shampoo rimaste a metà». Samuel, nel 1996, con un gruppo di amici ha fondato l’associazio­ne Malaika Onlus per sostenere progetti sociali in Africa e ad Haiti. Cuba però gli era rimasta nell’anima. «Ogni volta che potevamo con mia moglie e i miei amici andavamo e portavamo tante valigie piene di materiale sanitario, vestiti, giochi

«Il baseball è lo sport nazionale ma i ragazzini sognano di diventare come i pugili perché qui la boxe è una sorta di religione»

e ogni volta erano dei salassi perché pagavamo centinaia di euro di sovrattass­e aeree, senza parlare dei battibecch­i infiniti con i doganieri», prosegue Fabbri che presiede Malaika. Eppure mai hanno ipotizzato di desistere. «Pensavamo solo agli occhi pieni di gioia di quei bimbi quando ci vedevano arrivare e a quanto fossero fortunati i nostri tre figli che, invece, avevano tutto», continua. Il gruppo a quel punto matura un’idea: allontanar­e i niños dalle cattive strade, evitare che inizino a delinquere o peggio che diventino prede di turismo sessuale. «Appena ho visto il palazzo abbattuto, ho pensato alla palestra di boxe in quella sorta di quadrato naturale che si era formato con i tre edifici circostant­i e la strada», ricorda. Uno sport che fa storcere il naso a molti. «Il baseball è lo sport nazionale ma i ragazzini sognano di diventare come i pugili Teofilo Stevenson (3 ori) o Félix Savón (3 ori) perché qui la boxe è una sorta di religione e io volevo togliere dalla strada più persone possibili. Nell’isola il pugilato non è violenza ma disciplina, sacrificio, amicizia vera e rivalsa sociale. Non a caso sono stati proprio i genitori ad aiutarci a costruire il ring con le 16 corde che, insieme ai guantoni e ai caschetti, sono stati donati dalla palestra Sempre Avanti di Bologna», dice.

LA FILOSOFIA PUGILISTIC­A CUBANA ha principi ferrei: prima i risultati a scuola, poi gli allenament­i e il controllo della salute. Così hanno costruito la vittoria di 37 ori olimpici. La onlus, però, doveva superare un grande scoglio: i permessi governativ­i. «Per degli stranieri è quasi impossibil­e ottenerli ma il buon nome che Malaika si era creata con gli aiuti umanitari ha fatto il miracolo», afferma. Così, sul finire del 2013, ha assunto due“profe” di fama come Daniel Casanova e Jorge Donatién e pian piano, dopo la scuola, sono iniziati ad arrivare tanti ragazzi accompagna­ti dalle madri. «Oggi a dare una mano gratuitame­nte arrivano campioni olimpici come Gómez e Savón o il recordman del salto in alto Javier Sotomayor», aggiunge. Senza considerar­e che anche famosi cantanti come Enrique Abreu portano i loro figli e ogni volta che arrivano succede un delirio nel quartiere. Persino i Tg locali hanno realizzato servizi sul gimnasio dopo che quattro boxeur, alla prima partecipaz­ione, hanno trionfato ai campionati provincial­i dell’Avana.

«Oggi quattro bimbi sono stati presi dalla Nazionale e per noi è stata una grande gioia perché siamo stati riconosciu­ti dall’Istituto Nacional de deportes, educatión fisica y recreación, una sorta di Coni cubano, che ora paga i nostri due allenatori». Le vittorie sono importanti ma passano in secondo piano. «Vogliamo insegnare l’autostima, a non buttarsi via percorrend­o strade sbagliate. Ho capito che avevamo vinto la prima medaglia quando il ragazzo che aveva alle spalle il passato più turbolento di bullismo è stato, poi, il primo ad aiutarci a integrare le prime due ragazze e due omosessual­i». Ora, dopo aver realizzato il tetto, Malaika ha ottenuto il permesso per costruire gli spogliatoi. «Siamo una piccola onlus, ci autotassia­mo perché non abbiamo grandi aiuti economici ma andiamo avanti come le formiche e per trovare fondi abbiamo iniziato a dare lezioni private anche ai turisti». La voce si è sparsa in città. «Arrivano da tutto il mondo e, alla fine, lasciano offerte per il progetto perché chi boxa sa che sul ring come nella solidariet­à “se habla un solo idioma”».

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Nelle foto di queste pagine i giovani pugili che si allenano al Gimnásio de boxeo “Niños de Cuba”
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Fatti sotto, se hai il coraggio
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