Un italiano a Eton
(grazie a una prof di Bagnacavallo)
No ai corsi su YouTube, sì invece alle esperienze di lavoro. E, soprattutto, sì a innamorarsi. Un padovano che insegna inglese agli inglesi spiega come s’impara davvero IL MIO PRIMO LIBRO DI INGLESE
si chiamava Laugh and learn english. Avevo undici anni. In copertina sorrideva ammiccante un ufficiale di Sua Maestà, somigliante a Gino Paoli. Il libro di matematica, invece, era tetro e solenne. La mia professoressa di inglese, una signora di Bagnacavallo (Ravenna), era allegra come l’ufficiale,ma senza baffi. Aveva imparato subito il mio nome e cantava parole esotiche: « The book is on
the table» e« Mr Smith does not like rice pudding », evocavano un mondo lontano e appetitoso, nonostante il rice pudding. La mia prima reazione all’inglese è stata quella di un undicenne con la cotta dopo una festa di classe. Avevo intuito che quella lingua era speciale, e volevo farla mia. La cotta si è poi trasformata in innamoramento, fidanzamento e, alla fine, un lungo matrimonio felice.Vivo in Inghilterra da quasi 25 anni, e insegno inglese agli inglesi (ma non fateglielo sapere) da quasi venti. Oggi lo faccio a Eton, uno dei college più importanti del Regno Unito. Gli italiani hanno un rapporto un po’ difficile con le lingue straniere, e in questo hanno molto in comune con i britannici. A differenza loro, però, non se lo possono permettere e, con buona pace di Monsieur Juncker, l’inglese è
importante. Eccome. La mia difficoltà da professore di lingua era concepire che esistessero persone, anche madrelingua, a cui l’inglese sembrasse ostico e strano senza essere interessante. In effetti è una lingua facilissima da scrivere e parlare (male) ma, come gli inglesi, sa nascondere i suoi segreti più belli. Negli Anni Ottanta non avevamo molti strumenti. Speak Up usciva nelle edicole una volta alla settimana con la famigerata revelation pen (che rivelava, appunto, le risposte esatte degli esercizi), la Rai trasmetteva Follow Me e le riviste pubblicizzavano magici cuscini che promettevano di trasformare i dormienti in poliglotti overnight. Le prime costosissime vacanze studio mandavano greggi di paninari all’estero (36 ore di pullman da Padova a Ealing nel mio caso), ma l’inglese non si imparava un granché. Non ci sono bacchette magiche per diventare bilingui. Una lingua va ascoltata, praticata, cantata. I dvd dei film con sottotitoli originali sono un metodo straordinario per affinare l’orecchio alle pronunce. Radio 4 della BBC produce programmi parlati bellissimi che fanno anche bene al cervello. Rivedere in lingua originale un film classico che si conosce a memoria in italiano funziona benissimo. Scoprire parole spulciando un dizionario di carta è impagabile. Cercandone una se ne imparano venti. YouTube dissemina corsi improbabili, e sono talmente tanti che è difficile trovare quello giusto. E attenti alle offerte di conversazioni madrelingua. So per esperienza come i famigerati native
speakers abbiano spesso molto da imparare. Alla fine è una questione di fortuna. La fortuna di avere avuto una professoressa di inglese di Bagnacavallo che sorrideva più delle altre, nel mio caso, e che sapeva dirmi bravo quando me lo meritavo, invogliandomi a fare di più e meglio. Ma l’iniziativa è importantissima. Nessun corso di lingua mi ha insegnato più della mia esperienza da cassiere in un supermercato a sud di Londra, dove ho lavorato per tre estati di fila negli anni dell’università. In quell’occasione, tra l’altro, ho capito di potermela cavare da solo, lezione ancora più utile. Non abbiate paura dell’inglese: farsi capire è semplice, e parlarlo bene è un gran divertimento. Come quando si impara ad andare a cavallo: bisogna rischiare un po’ e rimettersi in sella non appena caduti. Se si provoca qualche risata non importa. L’ufficiale ammiccante del mio libro delle medie sarebbe comunque fiero di voi.