La Milano da (ri)bere e due Proust di Cosenza
SCRIVE RUGGERO
Ghiselli: «Grazie per I Fantasmi dell’Impero che ho profondamente apprezzato. Mi auguro che il trio Cosentino, Dodaro e Panella torni presto in libreria a regalarci nuove emozioni. Approfitto per chiederle di un autore che immagino lei conosca: Ed McBain, famoso soprattutto per la serie di polizieschi dell’87esimo Distretto che Einaudi sarebbe in procinto di ristampare. Per il momento, mi consolo leggendo la sua intervista a Giampiero Ventura». Ho conosciuto l’altra sera i “fantasmi” Cosentino, Dodaro e Panella e mi hanno più che favorevolmente impressionato anche di persona oltre che sulla pagina (non succede spesso). Eravamo in un locale milanese molto in (giocatori del Milan, modelle e altro), con una strana atmosfera da Milano da ri(bere), ma la serata ha preso una piega inaspettatamente e struggentemente proustiana quando ho scoperto che Dodaro è di Cosenza come me. Ed McBain è uno scrittore formidabile. Sarà almeno l’87esima volta che lo dico e non mi stancherò mai di ripeterlo. Il tanto (giustamente) decantato ritmo narrativo delle migliori serie televisive lo aveva già inventato lui nei suoi romanzi.
NON MI ERO
dimenticato dell’angolo retto (la punizione che toccava ai cadetti del collegio militare Leoncio Prado di Lima) e nemmeno della vigogna, il camelide che si aggirava nel cortile della caserma. Non mi ero dimenticato del Giaguaro e del tenente Gamboa, il primo dei tanti tenenti dei romanzi di Vargas Llosa, del Circolo e degli aperitivi a base di grasso di fucile, olio e sapone (il disgustoso cocktail per battezzare le matricole), di Ricardo Arana detto lo Schiavo (il Nemecsek di questa storia) e di Pies Dorados, la prostituta allegra che iniziò al sesso sia Vargas Llosa sia Alberto detto il Poeta, uno dei personaggi di La città e i cani, uno dei libri più belli e disincantati del Novecento, il romanzo che rivelò al mondo a soli ventisei anni don Mario Vargas Llosa e che aprì, nel 1962, la stagione prodigiosa della letteratura latinoamericana (prima di Cent’anni di solitudine). L’ho riletto nel Meridiano Mondadori dedicato allo scrittore (Nobel 2010) e che comprende (nel primo dei due volumi previsti) anche La
Casa Verde e Conversazione nella “Catedral” (il romanzo della nazione, il romanzo del Perù), tre capolavori indiscussi composti da Varguitas in sette anni (e altri sarebbero seguiti). Credo che sia un record mondiale. No, non mi ero dimenticato della Città
e i cani, il romanzo che comincia con un colpo di dadi («“Quattro” disse il Giaguaro»), che sembra uno sparo, di fucile e finisce con un cadavere che non conviene resuscitare. E non mi ero dimenticato nemmeno della Casa Verde e di Conversazione, ve ne riparlerò tornando sopra questo meraviglioso Meridiano curato con sapienza (e anche affetto, l’affetto che non si può non provare per uno scrittore immenso come don Mario) da Bruno Arpaia.
AMBROGIO DONGHI:
«In una rubrica del 7 aprile, lei segue l’insopportabile moda di terminare una frase con l’avverbio proclitico “non”(che si appoggia, cioè, alla parola seguente perché non sta in piedi da solo). Evidentemente, lei riesce a immaginare Vittorini che scrive Uomini e non. P.S. Non riesco a gioire di uno svarione grammaticale, nemmeno se proviene da un interista». Guardi meglio, il proclitico non è mio. E, comunque, non è che non riesco a immaginare Vittorini che scrive Uomini e non, non riesco proprio a immaginare Vittorini (pace all’anima sua) che scrive romanzi (piccola eccezione: Il garofano rosso, il romanzo sulla Pies Dorados di Vittorini, tanto per ricitare Vargas Llosa). Sull’Inter aveva ragione il Mancio e, come al solito, prima di tutti (non segue dibattito).
ANNA MARIA
Palamone scrive: «Oggi ho letto la più bella delle interviste, grazie». La lettrice si riferisce all’intervista a Teresa Ciabatti. Prego.