Arnie, non cosche
Caseifici, agriturismi, hotel, studi radiofonici, cooperative, aziende agricole, ristoranti e caffè: i luoghi della criminalità organizzata strappati ai boss oggi sono posti dove si lavora. Altro che, se si lavora
pronta facilità. Si mettono le tende alle finestre, le piante sul davanzale, presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima. Ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre. È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore».
Oggi, dopo quasi quarant’anni, abbiamo la prova che non tutto resta «così da sempre e per sempre». Che «la curiosità e lo stupore» di cui parlava Peppino Impastato convivono con la voglia di cambiare, rinascere. I luoghi della mafia, per esempio. Ce ne sono a migliaia a dimostrare che cambiare è possibile e sono quelli confiscati ai mafiosi e diventati altro. Palazzi tirati su a forza di estorsioni, fabbricati serviti a incontri fra uomini della peggior specie, terreni appartenuti ai boss, aziende aperte per riciclare soldi o fare affari sporchi, ville, appartamenti... Grazie alle confische e alle riassegnazioni oggi sono altro, appunto. Angoli di mondo dov’è arrivata finalmente la bellezza in cui tanto sperava Peppino Impastato. A Cerignola (Foggia) le terre strappate al boss Rosario Giordano oggi producono olio d’oliva e pomodori con la cooperativa Pietra di scarto. Sul muro del vecchio magazzino i ragazzi hanno disegnato un murales. «Lo Stato siamo noi» dice la scritta in mezzo all’arcobaleno, e sullo sfondo c’è il volto di Francesco Marcone, assassinato dalla mafia il 31 marzo 1995. Era
il direttore dell’ufficio del Registro di Foggia, «vittima del dovere» racconta il murales. Pietro Fragasso, il presidente della cooperativa, spiega a tutti – specie ai ragazzi delle scuole per i quali programma incontri sulla legalità – che «noi qui lavoriamo nei campi, facciamo funzionare le cose, ma questo luogo non è nostro, appartiene alla società civile». Sta tutta lì la bellezza di questi progetti: nella trasformazione di un frutto che quand’è cattivo è di un uomo soltanto e che però diventa di tutti quando si fa buono. Frutti buoni come Pietra di scarto ce ne sono mille
e mille altri (le immagini che pubblichiamo ne mostrano alcuni). Sono beni confiscati alla criminalità organizzata che si trasformano in agriturismi, centri di aiuto per gente in ogni genere di difficoltà, realtà commerciali o produttive (agricole e non), attività per l’inserimento lavorativo per categorie a rischio... Le cooperative e le associazioni che si occupano della loro gestione spesso diventano il solo punto di riferimento possibile per chi, proprio come certi luoghi, ha bisogno di rinascere, specie in momenti storici e in aree ad alto tasso di disoccupazione o di difficoltà sociale. Ma non funziona così da sempre. C’è stato un tempo in cui l’aggressione al patrimonio dei criminali e la sua riconversione non erano nel conto da pagare alla Giustizia. La svolta arrivò con la legge Rognoni-La Torre, datata 1982: è con quella che fu introdotto per la prima volta nel codice penale il delitto di associazione a delinquere di tipo mafioso (il 416 bis) e fu prevista la confisca dei beni alle organizzazioni criminali. Nel 1996 – grazie soprattutto alla campagna di Libera che con una petizione popolare raccolse più di un milione di firme – si andò un po’ più in là della RognoniLa Torre e si approvò una nuova legge (la 109) sul riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie. Risultato: dal 1996 a oggi sono stati censiti 16.696
immobili tra fabbricati e terreni, 7.800 beni finanziari, 2.078 beni mobili, 7.588 beni mobili registrati e 2.492 beni aziendali. Il 7 per cento di tutto questo è in Lombardia, dove in alcune aree la criminalità organizzata ha messo radici per seguire le vie del denaro secondo quello schema che ben conosceva Giovanni Falcone quando diceva: «Se vuoi trovare la mafia segui i soldi». I beni confiscati sono potenziali luoghi della legalità, ma quasi la metà di questi oggi risulta al palo. Sono troppo complesse le procedure burocratiche che precedono la consegna a chi avrebbe i requisiti per ottenerli. E così fra concessioni, regolamenti, bandi, complicate modalità di assegnazione, finisce che moltissimi immobili o terreni vivono anni e anni di stallo scoraggiando chi è interessato a riqualificarli e, soprattutto, rischiando di rimanere vuoti e abbandonati all’incuria, che per lo Stato si traduce in costi sempre più alti con il passare degli anni. Per far fronte ai ritardi nelle assegnazioni e superare il vecchio modello di gestione dei beni sottratti alle mafie, è nata nel 2010 l’Agenzia nazionale che si occupa dell’amministrazione e della destinazione di tutto ciò che viene sequestrato o confiscato alla criminalità organizzata. Da allora a oggi sono stati fatti passi avanti per snellire procedure e accelerare tempi ma il racconto impietoso dei numeri ci dice
che la strada è ancora molto in salita. E tutte le aspettative per migliorare la situazione, al momento, sono riposte nella riforma del codice antimafia e delle norme per la gestione dei beni confiscati, in attesa di approvazione al Senato dal 2015. Mentre la politica cammina (anche lei) a passi lenti, la società civile si adegua in fretta alle esigenze del territorio e chi supera il percorso a ostacoli della burocrazia e ottiene finalmente ex immobili di criminali (sempre in comodato d’uso, mai come proprietà) segue sempre indicazioni, bisogni o emergenze sociali. Peppino Impastato sarebbe fiero di tutti loro. Della loro bellezza che non conosce paura.