Cos’è uno Slavo?
Per il popolo slavo c’è stata una lunga epoca di oppressione percepita come inevitabile
LO SLAVO SOFFRE d’incomprensione. Più ancora, di essere sconosciuto. È da questa incomprensione che nasce il peculiare complesso degli slavi nei confronti dell’Occidente, compensato da un’altrettanto insistente convinzione, fino al fanatismo, di non essere inferiori. (Piccolo ripasso: non sono slavi gli ungheresi, i rom, i rumeni, gli albanesi; sono slavi i bosgnacchi musul
mani). Gli slavi arrivano tardi. Alla scrittura (con Cirillo e Metodio, 863), al cristianesimo, ai libri stampati nelle lingue nazionali nel Cinquecento, che sono abecedari e catechismi, quando altri hanno già avuto Dante. Solo dopo il 1848 a Lubiana, Praga o Varsavia gli abitanti si percepiscono come sloveni, cechi, polacchi, inconfutabilmente dei popoli. Non hanno avuto borghesie importanti, ma uno sterminato stuolo di contadini e quando i borghesi c’erano in Mitteleuropa parlavano tra loro tedesco, a San Pietroburgo in francese. Scrive bellissimi sonetti in sloveno all’amata Julija il poeta France Prešeren, che per lei ricrea dal nulla tutta la metrica classica, né più né meno di Hölderlin in Germania; ebbene, lei lo rifiuta rispondendogli in tedesco. C’è stata per gli slavi una lunga epoca di oppressione e di sottomissione percepita come inevitabile e vissuta, più che come umiliazione, come fatica. E poi la possente presenza della Russia, infinitamente più grande degli altri popoli, attorno a cui nacque l’idea di un’unità panslava («najvecˇ sveta otrokom sliši Save», sempre Prešeren, «ai figli della Sava spetta la parte più grande di mondo»). Sempre bilanciata dai sospetti che Mosca potesse diventare l’oppressore peggiore, come successe nel Novecento comunista. Contro di lei, nelle cantine affumicate da sigarette di Praga o Bratislava intellettuali soli e coraggiosi guardavano all’Europa come un traguardo e alternativa possibile, pieni di complessi e ammirazione, ma anche con l’idea di farne parte anch’essi: e alla fine, l’hanno avuta vinta. È per questo, di fronte all’impossibilità, sperimentata per secoli, di governarsi e di governare, perfino di decidere alcunché, che gli slavi – tutti indistintamente – si sono rifugiati nella lingua. Come riparo e autoconservazione delle comunità e di sé stessi. La poesia e il lirismo come legame, la certezza di un altrove, quel senso sovreccitato e sentimentale di condivisione e di assoluto – più importante e vero di qualsiasi politica – che commuove anche il più duro dei russi, perfino un Limonov («l’anima russa piange»): e che un francese o un inglese non capirà mai. Infine, lo slavo non esiste. È bene che sappiate quando apostrofate un serbo, uno sloveno, uno slovacco con “slavo” che lui penserà: eccone un altro che non sa nulla, gli slavi si sono frantumati in una dozzina di identità più di mille anni fa. Eppure, nulla gli vieta di star seduto a contemplare il tramonto sulla cupola dorata di Sant’Isarco a San Pietroburgo o guardare in Kosovo, a Mitrovica, il fiume Ibar e di sentirsi, felicemente, a casa.