QUELLI DELLO SCALONE DI VIA SOLFERINO 28
Curzio Malaparte, un uomo d’azione «rumoroso e variopinto»
«AL MATRIMONIO VOLEVA ESSERE LA SPOSA, al funerale il morto». Basterebbe questa fulminante definizione di Leo Longanesi per riassumere la complessa personalità di Curzio Malaparte, tra le figure più inafferrabili e controverse del Novecento, non soltanto italiano. Perché il protagonismo era il carburante della sua vita. E tutto in Malaparte è Malaparte. A cominciare dal nome che suona come una dichiarazione d’intenti: la rivendicazione di una personale posizione nello scacchiere dell’esistenza, pubblica e privata. Pratese, figlio di padre tedesco e madre italiana, si chiamava Kurt Erich Suckert. Cambiò nome nel 1925, incerto se affiancare Curzio a Farnese, Borgia o Lamberti. Scelse Malaparte dopo aver letto un libro in cui l’autore sosteneva che si trattava dell’originario cognome della dinastia di Napoleone, cambiato poi in Bonaparte per concessione papale. Una storia che sembra costruita
apposta per lui, una firma che gli sta a pennello come un abito di sartoria. Ma sono infinite le tessere che compongono il mosaico di un personaggio che Indro Montanelli, suo eterno rivale, definiva «rumoroso e
variopinto», «rissoso e rapinoso». Il carattere da uomo d’azione, la passione per i duelli, la ricercata eleganza; la sua casa di Capri «triste, dura e severa», costruita sulla punta rocciosa di Capo Massullo, da lui ribattezzato, per la rabbia dei capresi, Capo Malaparte. A chi gli domandava se il progetto fosse suo rispondeva: «No, io ho disegnato il panorama».
Era scontroso, contraddittorio, eclettico, superbo – gli piaceva venire accostato a Hemingway: «Siamo coetanei», diceva, «ma lui beve, io no» . E vanitoso. Come testimoniano le foto che lo ritraggono nei vari momenti della sua vita, foto dove è chiara la ricerca della posa migliore, dell’espressione più enigmatica e virile. Perfettamente calato nella parte che vuole interpretare. Primo fra tutti proprio lo scatto dello Scalone del Corriere. Una foto che colpisce come la prosa dei suoi romanzi, Kaputt e La pelle in testa, come le sue corrispondenze che a volte ricorrevano alla fantasia per rendere più vera la realtà; una foto che per il suo carattere così politicamente scorretto mi ha sempre attratto e respinto, affascinato e indignato. Malaparte è in Etiopia, dove giunse nel 1939 come corrispondente del Corriere. Indossa pantaloni chiari infilati negli stivali; è all’aperto, con un asciugamano che copre il torso nudo, e si sta facendo la barba con l’aiuto di un etiope che gli regge lo specchio davanti al viso, serio e corrucciato. Sintesi del suo essere controcorrente e avventuriero, attento a costruirsi, come in una sorta di propaganda personale, la propria leggenda.
IN VIA SOLFERINO CURZIO MALAPARTE era entrato nel 1932 (e ci rimase fino al luglio 1943) dopo essere stato, ad appena 31 anni, direttore della Stampa. Era stato Aldo Borelli a volerlo. In una lettera che il neo assunto gli invia alla vigilia dell’ingresso al Corriere » non rinuncia al gusto della battuta: «Volevo scriverti, caro direttore, in versi, ma mi sono fermato in tempo, per paura che tu mi rispondessi per le rime». Nel giugno del 1941 è proprio Malaparte a informarlo con una settimana di anticipo che la Germania avrebbe attaccato l’Unione Sovietica e che lui avrebbe passato il confine con le prime truppe. Ma quella non è che una delle molte vite di Malaparte. Malaparte garibaldino, Malaparte volontario nella Grande Guerra, diplomatico in Polonia, Malaparte fondatore di giornali, fervente fascista, antifascista, capitano degli alpini; Malaparte comunista, amico di Togliatti, anticomunista. Un esempio di come si possano vivere tante vite e ciascuna viverla pienamente, come se fosse l’ultima, l’unica. Ma sempre da protagonista. Negli ultimi anni, grazie al lavoro di biografi come Giuseppe Pardini e Giordano Bruno Guerri, la sua figura è stata indagata senza pregiudizi.
SI È ANDATI AL DI LÀ DEL PERSONAGGIO per capire chi era l’uomo Malaparte e che cosa ci ha lasciato. Scoprendo così che è stato un precursore di molti comportamenti moderni: l’animalismo – era legatissimo ai suoi cani e si dice che di notte, affacciato alla finestra, abbaiasse per richiamare la loro attenzione; la cura maniacale del corpo – i capelli neri stirati dalla brillantina, le guance levigate, le ciglia accentuate dal rimmel. È stato un presenzialista ante litteram, il primo tuttologo, un ecologista inconscio. Rimanendo sempre se stesso, fiero delle proprie contraddizioni. Morì a 59 anni, come aveva vissuto: con uno stuolo di persone intorno al suo capezzale, sempre convinto che la morte non lo avrebbe toccato. «Non era fatto per invecchiare», scrisse Montanelli, «e la dentiera gli sarebbe stata malissimo». «La verità», disse Malaparte, «è che non sono né peggio né meglio della mia stupida leggenda: ma sono diverso. Se la gente mi crede diverso da quello che sono, la colpa è in gran parte mia, di certi miei atteggiamenti voluti, di certi miei gesti falsi, della mia incorreggibile ingenuità di voler apparire più furbo di quel che in realtà io non sia».