L’eroe più americano di tutti è un brillante psicopatico californiano
DI SOLITO SI CITANO Chandler e Hammett. A volte McCain e Spillane. Raramente Jim Thompson. Quasi mai Charles Willeford (1919-1988), soldato valoroso nelle Filippine, scrittore di soap, poesie, ma anche combattimenti di galli, critico d’arte. Eppure fu un grande e dimenticato maestro di suspense (e di prosa). Una delle sue qualità maggiori è la velocità di esecuzione. Guardate la partenza di Miami Blues, primo volume di una quadrilogia portata a termine in punto di morte. Il «brillante psicopatico californiano» Freddy Frenger, tre anni nel carcere di San Quentin, vola in prima classe alla volta della Florida esercitandosi, mentre sorseggia champagne, a falsificare le firme di un mazzetto di carte di credito rubate. Sbarcato al terminal, Freddy provoca l’assurda morte di un Hare Krishna (che si è preso troppa confidenza). Da qui in poi è una reazione a catena e Willeford diventa un domatore che tiene al guinzaglio una tigre (e, forse, la sua esperienza nei campi di battaglia – insieme a quella nelle arene dei galli – giova al suo stile e gli tiene la mano ferma nelle svolte più concitate del racconto). Charles Willeford sa che l’azione in un romanzo non è tutto. Ci vuole altro. Per esempio, un haiku, la poesia tipica giapponese con le sue inderogabili diciassette sillabe brevi d’ordinanza che fa il suo debutto in una storia hard-boiled. Nel romanzo se ne citano due. Il primo è di Willeford: «Il sole lento / sale sulle Everglades / Chiappe al vento». Il secondo è famosissimo ed è di Basho, maestro di haiku: «Nello stagno antico / si tuffa una rana: / eco dell’acqua». I due haiku colpiscono Freddy, tipo
incolto ma sveglio, e gli appaiono come due prefigurazioni del suo destino a breve e lungo termine. Soprattutto lo splash («eco dell’acqua») della rana che si tuffa. La trovata degli haiku è da scrittore di prima classe (non quella degli aerei, stavolta, ma della letteratura).
DAI DIALOGHI DI Miami Blues si capisce che (San) Quentin Tarantino non inventò niente in Pulp Fiction (lui stesso ammise il suo debito nei confronti di Willeford). Un esempio. La giovane prostituta Susan (le «chiappe al vento» del primo haiku sono, secondo Freddy, le sue) chiede allo psicopatico: «L’azzurro della tua camicia si intona ai tuoi occhi. L’hai comprata perché si intonava ai tuoi occhi?». Lui: «No, mi piacevano i tasconi. Fa troppo caldo per portare la giacca, e ho bisogno delle tasche». La loro storia (d’amore?) è racchiusa tutta in queste due battute. Il romanzo è anche uno straordinario reportage sulla Miami degli anni Ottanta. Willeford la racconta come se scattasse Polaroid. Prima istantanea: «L’obitorio era un edificio basso a un piano. La capacità di stoccaggio era stata aumentata da due vagoni refrigerati presi a nolo per tener dietro al flusso dei cadaveri che arrivavano ogni giorno». Seconda istantanea: «Gli agenti della Buoncostume, alcuni fingendosi gay, altri senza bisogno di fingere, battono in continuazione i bagni pubblici per alzare la quota di arresti quotidiana». La terza istantanea è del sergente Moseley Hoke, protagonista della quadrilogia, che, in un momento di malinconia, rimpiange i barbecue di quando era sposato: «Poi, dopo mangiato, le donne si riunivano in salotto a parlare delle complicazioni dei loro parti, e gli uomini giocavano a poker in cucina». Nel romanzo La metà oscura Stephen King definisce Willeford «un cavallo di razza». Ha ragione, è un purosangue.