Un alieno a Firenze
Abbiamo mandato “l’uomo peggio vestito d’Europa” (parole sue) alla Leopolda per raccontare Pitti Immagine, classico appuntamento della moda maschile. Così abbiamo conosciuto Tommaso, venditore di cappottini per cani, Noemi studentessa-ballerina-aspirante
«LUCA, CI SAREBBE DA ANDARE ALLA LEOPOLDA».
« Beppe, è tardi. Ormai non rimedio neanche un posto da vicedirettore al Gr3 » . Questa telefonata non è mai avvenuta, non così almeno, eppure sono qui. Nel tempio a culto variabile. Dentro al vecchio scalo abbandonato che è stato e tornerà ad essere incubatore e approdo del renzismo ma intanto incornicia le sfilate di Pitti coi suoi muri decadenti e le sue paratoie arrugginite. Laddove la fascinazione per il contemporaneo trasfigura il brutto in archeologia industriale e il vecchio in avanguardia. Siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni. O le gonne a balze. O i comizi elettorali. Vogliamo fortissimamente fidarci. Credere. A costo di farci portare in un altrove che non c’è, e a patto che nessuno ci svegli. Come quella volta che al cinema stavo vedendo The
Road, drammone apocalittico in cui un padre accompagna il figlio in un’America post-nucleare, e mi accorsi dopo cinque minuti che il protagonista era doppiato da Pino Insegno. Il resto del cinema, da quel preciso momento, non riusciva a capacitarsi di quel tanghero – io – che rideva rumorosamente a ogni, drammatica, battuta. Alla Leopolda. In ritardo sulla Storia, come tutti noi rottami sinistrorsi. Alla festa sbagliata e fuori tempo massimo. Deprivata di tavoli e relatori, aspiranti e aspirazionali, top manager e flop manager, Marie Elene e Nardelli. Un tempo persino Civati. Due ali contrapposte di cilindri scomodissimi, che solo
Siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni. O le gonne a balze. O i comizi elettorali. Vogliamo fortissimamente fidarci. Credere.
Uun fanatico del bondage potrebbe chiamare sedute, riempiono in parte il vuoto lasciato dalla classe digerente del Paese. Sui sedili, persone annoiate che muovono l’aria con ventagli istoriati di ideogrammi. In diffusione, un
pastiche musicale gotico tra Claudio Simonetti e Franco Bracardi. Sul fondo, tre caleidoscopi fatti di schermi che rischiarano appena l’aria, mentre cominciano a spuntare, nell’ordine: ragazzo di colore apparentemente reduce da sequestro dell’Isis, imitatore di O. J. Simpson con viso travisato da retina rossa, serie di rugbisti tatuati fasciati con la stagnola, alcuni modelli vestiti in modo – orrore – quasi plausibile. Figuri, questi ultimi, che violano un patto non scritto: ciò che va in passerella serve agli allocchi come me per confezionare facezie scadenti. Gli altri, chi la moda la fa davvero, lo usano per far mulinare l’impalpabile che scuote i bilanci. Leggi della Borsa versus leggi della borsa. E io non ho mai capito alcunché di nessuna delle due. Mentre anche lo stilista emerge dalle retrovie tra applausi appena cortesi e mi balocco se cadere nel battutismo prêt-à-porter (si chiama Kubo, celiare su alcune facce da Kubo delle Leopolde precedenti sarebbe un attimo) realizzo il contrappasso: non devo scrivere un pezzo, il pezzo sono io. L’uomo peggio vestito d’Europa al cospetto delle eleganze altrui. La narrazione, anzi: lo storytelling, di Pitti Immagine, affidata al Diavolo veste Upim. Giorni fa ero a Sofia – giuro, è vero –e i locali mi parlavano in bulgaro. Certo, ho delle attenuanti: a me sta male tutto. Le Superga Panatta, che impreziosirebbero di anacronismo cromatico ogni figura minimamente slanciata, mi fanno sembrare una specie di Pierrot sovrappeso. La giacca Aspesi mi va a pennello, ma il pennello del colore sbagliato. La camicia navy Armani presa all’outlet cadrebbe perfetta sui tizi di prima, ma su di me sembra la mise di un cameriere di Cucine da Incubo. Prima che passasse Cannavacciuolo a dare una mano di nuovo. Già, ma cos’è il nuovo? Forse i quattro ragazzi reggiani che si spiaggiano alla Fortezza, tra gli stand di questo Motor Show Metrosexual, come in un vecchio film di Almodovar, o, meglio, di Pappi Corsicato. Vantano migliaia di follower su Instagram, alla voce professione rispondono convinti « fashion blogger »«. Ma vi pagano »«. Ci danno i vestiti » . Dai fratelli Cervi a Chiara Ferragni c’è tutto un percorso. Decisamente glamour. Una lotta di vera classe. Ma nuovo è anche Marco, o almeno sono nuove, assicura, le scarpe che propone, quelle coi pisellini lampeggianti nella suola, che qualche anno fa mia figlia mi costrinse a comprare dal negozietto cinese vicino a casa. « Le abbiamo inventate noi italiani ma poi le hanno prese i francesi » , dice con un orgoglio che manco alla Parmalat. Mi regala un paio di occhiali che simulano i tatuaggi di non mi è chiaro quale pop star. Li indosso e mi sento a Ibiza. « Cosa fai nell’azienda? »«. Referente commerciale. Anzi no: metti sales manager. Suona meglio » . Of course. È nuova Noemi, che distribuisce cartoline di calzature dal tacco importante, rifinite in metallo pesante. Fa la hostess, qui, ma ha partecipato a un concorso di bellezza molto noto, ma proprio molto, di cui non faccio il nome sennò arrestano me e lei perché, dice, « a livello locale è tutto truccato. A un certo punto per vincere mi hanno chiesto soldi o sesso. Io ho detto no e non ho fatto carriera. Vorrei insegnare danza ai bimbi » . Studia lingue orientali. È nuovo Tommaso, che paga 3.500 euro per una tavola in legno che dovrebbe essere di dieci metri quadrati ( « a me sembra meno » ) su cui ha disposto cappottini per cani che costano 200 euro: « Li portiamo anche a Pitti Bimbo, perché il cane come affezione è secondo solo al bambino » . Con una differenza: « I cappottini per cani li vendi solo d’inverno, ma poi l’Agenzia delle entrate l’anno scorso mi ha fatto lo studio di settore su tutto l’anno. Hanno voluto 6.000 euro di pizzo. Se ci aggiungi le banche che ti strozzano… eppure il mercato è florido » . Ha un triplo mantra: « Volere è potere, chi semina raccoglie, la ruota gira » . Fosse “gira la ruota”, sarebbe già a Porta a Porta. È nuovo un altro Salvatore, marcato accento napoletano, circondato dalle ragazze discinte di “Make Money Not Friends”. Le mette in fila prima che vadano a distribuire cappelletti e dollari falsi per promuovere capi che riproducono, violentandoli, i loghi di Mastercard, Visa, Dhl.
« La linea è nata da una delusione del capo, una cosa sua, intima, che non si può dire. Meglio i soldi che gli amici. Certo, non sarà etico ma poi lo pensiamo tutti… » . È nuova Raffaella, anche se ha iniziato a lavorare in Mediaset negli Anni 90. È la moglie di Luca Laurenti, cui fu presentata da Paolo Bonolis, giostrava con Antonio Ricci e Beppe Grillo a Milano quando Ricci non era ancora Ricci e Grillo era già Grillo, e gli ha presentato Cristina Calori, la supercapona bolognese di Woolrich che si è comprata la casa madre americana pochi anni orsono. « Beppe viene a tutte le edizioni e scappa da una porta sul retro che conosciamo solo noi. Gratis. Fa solo un giretto allo spaccio di Bologna per portare a casa qualche giacca » . Da come ne parla, con affetto, parrebbe che ogni visita sia una fragorosa rottura di coglioni. Ma forse sono io che sto diventando renziano. È nuovissima Giulia, gote rosso fuoco per l’emozione, che presenta un libro sul dandysmo di fronte a una microscopica platea di oscargiannini, con un relatore gravido di rivelazioni storiche: « Curzio Malaparte litigava col Duce perché continuava a mettere cravatte fantasia sulle camicie a quadretti » . Va a finire che il Ventennio nacque per colpa del “total black”. È nuovo da decenni Klaus, di professione massmediologo, che illustra la sua proposta per far riconoscere l’artigianato italiano all’Onu. Uno che se lavorasse per McDonald’s chiederebbe di nominare l’happy meal patrimonio dell’umanità. Sono nuove Rita, la sua acconciatura blu elettrico, l’auto su cui sta per risalire in direzione Novellara « perché quest’anno c’è poca gente e poca roba » . È nuova Maria (nome di fantasia) che vuol diventare storica dell’arte ma intanto smercia informazioni e gentilezza pro domo Pitti per 50 euro al giorno, non si lamenta, e festeggia la trasgressione quando può eludere per un attimo il lavoro e farsi un selfie con Gabbani. Che invece è pagato per farsi le foto con lei. E persino (mai abbastanza) con me. Sono nuovi i gabbiotti dello street food di “pizza e mortazza” a cinque euro, il modello sedicenne Cosimo che per sfilare si fa finanziare dai genitori, lo stilista afro-norvegese che attira i fotografi « ma non ho ancora una mia linea » . Chissà come dice Alberto Sordi a Oslo. E sono vecchio io, coi miei pregiudizi sulla massa indistinta che nel corpo a corpo umidiccio, quando stai per sprofondare nell’asfalto sciolto del piazzale e per una bottiglia d’acqua ti venderesti pure ad Alfano, diventano indulgenza per il singolo, compassione, nel senso cristiano del termine, verso un’energia a volte chimica, a volte macroeconomica, più spesso solitaria, goffa e speranzosa che potrei chiamare Italia ma forse è semplicemente umanità. Effimera, vera. Minacciosa, lieve. Un corpo elettorale, sudatissimo e incidentale, alla ricerca di una qualunque modernità. O del prossimo che gliela promette. Probabilmente sempre da qui.