IO, CAMERIERA IN NERO IN UN LOCALE DEL CENTRO DI ROMA
Una giornalista ha trovato lavoro in un bar della capitale, gestito solo da stranieri. Tra i tavoli si è mossa insieme ad altri ragazzi italiani, uno solo con il contratto in regola. Ecco il suo racconto, tra rigide indicazioni sull’abbigliamento, ferite
Io, cameriera in nero, in un locale del centro di Roma
UNO, DUE, TRE, QUATTRO, CINQUE BICCHIERI. Vuoti. Il bordo sporco di rossetto. Il mio capo è bengalese. Prendo ordini – e strigliate – in una lingua che mescola suoni a gesti, nel cuore della Roma bene. In uno dei bar più alla moda, nel quartiere più alla moda della capitale. Frequentato da 40enni à la page, 50enni “forever young” e un giro di tacchi a spillo caleidoscopico. Mi sono finta cameriera. In cinque giorni ho portato a casa 250 euro di paga in nero, 10 bicchieri rotti e un pezzo di vetro conficcato nella mano sinistra e operato dal cuoco, in cucina. Con acqua e sale. Ma andiamo con ordine.
L’APPROCCIO. O MEGLIO, LA CANDIDATURA. È mercoledì, a Roma fa già molto caldo e fra poche ore i marciapiedi del centro diventeranno una passerella a cielo aperto. Sono le 19.30. L’ora dell’aperitivo romano. Parcheggio su via Flaminia e punto dritta verso la
cassa del locale. Dietro al bancone in legno, sotto una maglietta a righe e una capigliatura bianca che smentisce il tentato giovanilismo, c’è quello che scopro essere il proprietario. «Chè, cercate ragazze per la sala?» chiedo. «Hai esperienza?». E io, che di esperienza non ne ho, abbozzo di aver lavorato nelle sagre di paese. Ma penso che se fossi nel proprietario, non mi assumerei. «Vieni qui domani alle 17, mettiti una polo bianca». Andata. Tutto qui. Niente cv, niente documenti, niente referenze. Un attimo e sono dentro al locale più fighetto di Roma.
LA PROVA. Tutto comincia sempre così, con una giornata di prova. Dalle 17 alle 2 di notte. Vale a dire 9 ore di lavoro. Pagate, in nero. 50 euro a giornata. Arrivo al locale mezz’ora prima, come un novizio che vuole fare buona impressione sul capo. Ma di questi, neanche l’ombra. Ad accogliermi, invece, c’è un ragazzo
pakistano di circa 30 anni, sneakers rosse e cappellino da baseball. Fuma una sigaretta al tavolo e parla un italiano stentato. Con lui c’è Aurora, 25 anni, milanese (tutti i nomi di questo articolo sono di fantasia). Da grande – racconta – vuole fare la tatuatrice. Già, perché ha studiato all’Accademia di Belle Arti di Brera e i tatuaggi, spiega, sono come i dipinti. Restano per sempre. Penso che siano entrambi camerieri, come me. Ma quando Karim butta la sigaretta e mi fa cenno di seguirlo, capisco che è lui il capo-sala. In fondo al locale, dietro una porta rivestita in laminato, scopro quella che per cinque giorni sarà la mia postazione, il mio camerino e anche lo spazio in cui fare pausa. La chiamano “caffetteria”: tre metri quadrati chiusi fra lavastoviglie, porta d’ingresso e macchina del caffè. Il mio compito sarà raccogliere i bicchieri vuoti lasciati nel giardino del locale, caricarli nella lavastoviglie e metterli a posto. «Lassù». Dove, con “lassù”, Karim intende le tre mensole di legno che sovrastano la porta. «Per arrivarci, usa una sedia». Ma prima, fai le candele. Lascia un grembiule nero sopra la lavastoviglie. Per me. E scompare. Sono le 19.30, inizia l’aperitivo. Basta chiacchiere. Uno, due, tre quattro, cinque. Calici.
LE CANDELE. Quei bicchieri di vetro, per capirci, che troviamo sui tavoli dei ristoranti e che contengono, all’interno, dei lumini colorati. Pulire le candele, qui, significa versare acqua bollente dentro i bicchieri in modo da sciogliere la cera. Peccato che poi, quell’acqua mista a cera, che fine fa? Me lo spiega Karim. Dentro il tombino comunale che si trova fuori dal pub. Si versa la cera fusa dentro un contenitore di plastica. Poi si attraversa la cucina e si esce dalla porta sul retro. Dieci metri più in là, si trova un tombino. Ecco che fine fa la cera.
IL PROPRIETARIO ERA ARRIVATO poco dopo le 19 senza rivolgermi né sguardo, né parola. Si ferma un’ora alla cassa, poi scompare. A prendere il suo posto è un ragazzo orientale. Camicetta nero corvino, come i capelli. Parla un italiano migliore rispetto a quello di Karim. È lui a strigliare Giorgio quando arriva – in ritardo – alle 19.30. Già, perché Giorgio, che di anni ne ha 23, studia giurisprudenza alla Sapienza, dall’altra parte della città e si muove con i mezzi.
IL GIARDINO DEL LOCALE, con alberi di limoni che fanno ombra a flirt, accordi e feste, è pieno di “gente che sta bene”. Al momento, siamo tre camerieri. Tutti italiani. Solo Aurora ha il contratto. Io e Giorgio siamo pagati in nero. «Metti che arrivino i controlli», mi spiegano «qualcuno deve ben avere un contratto». La paga, però, è uguale per tutti: 50 euro a giornata. La piramide di comando, qui, è tutta straniera. Il ragazzo che sta alla cassa, è, a sua volta, il capo di Karim. Di giorno gestisce due negozi di generali alimentari, di sera sta alla cassa del bar. Ma non solo. È lui, infatti, che ogni notte, alle 2.30 ci passa 50 euro di paga, è lui che ordina le bottiglie di vino mancanti, che stabilisce i turni di lavoro e organizza le feste. Con i soldi guadagnati – racconta – ha comprato una casa per la madre e una per sé, a Roma. Quartiere Garbatella. Quello di Caro Diario, per intenderci. Anche se il suo sogno, spiega, è di riuscire a comprarsi il Suv. Per ora ha una Clio del 2015. «Ho rifatto l’impianto stereo, però».
UNO, DUE, TRE, QUATTRO,
CINQUE BICCHIERI. Anche dietro al bancone degli alcolici a dettare legge non è un italiano. Gli italiani, qui, o fanno i camerieri o i lavapiatti. Due su tre in nero. Su 13 dipendenti, siamo solo due ragazze. Karim mi fa notare che la polo va abbottonata fino al colletto. E che i pantaloni, meglio se non sono troppo aderenti. No ai risvolti dei pantaloni «perché se no spunta un pezzo di calzino». Le altre regole della casa me le spiega Giorgio: se devi bere cerca di non farti vedere, dichiara sempre al cliente che c’è solo un tavolo disponibile. E così, via, mi butto. Uno, due, tre, quattro, cinque. Il vassoio può contenerne fino a dieci, di bicchieri. Ma se sei bravo, spiega Karim, puoi impilarli e arrivare a 20. E se, infine, porti il vassoio con una sola mano, l’altra resta libera. In questo modo ottimizzi il carico e puoi portare fino a 30 bicchieri alla volta. Sporchi, abbandonati a terra insieme ai piatti vuoti. Mi