L’imprenditore Felice Riva, rimosso con quattro (4) necrologi
IN ALTRI TEMPI,
se fosse stato ancora in vita il babbo, l’addio di Felice Riva, morto la settimana scorsa, sarebbe coinciso con un’impennata nel fatturato dei giornali alla voce necrologi. Raccontò infatti Camilla Cederna un dettaglio memorabile: in occasione della morte della moglie Luisella, Giulio Riva, fondatore e padrone del cotonificio Valdisusa e padre di Felicino, telefonò al Corriere per ordinare «un numero di annunci assolutamente strepitoso, così da eclissare ogni altro morto del passato». E per raggiungere l’obiettivo, decise di trasformare in necrologi a pagamento, fattura a carico suo, centinaia di telegrammi di condoglianze. Mica i quattro (quattro) dedicati l’altro mercoledì alla scomparsa di Felicino.
Dicono molto, quei quattro necrologi. Sono la rimozione di un ricordo fastidioso di un pezzo dell’imprenditoria settentrionale.
Perché Felice Riva fu molto di più che il passeggero presidente del Milan, più che il rampollo di una fortuna smisurata bruciata in pochi anni, più che uno dei protagonisti della prima «Milano da bere» dei ruggenti anni Sessanta e poi della cronaca mondana che lo trattò a lungo come la versione pop dell’Umberto I «in esilio a Cascais» come lui stesso amava definirsi. Certo, l’aneddotica contribuì molto a costruire il mito del playboy strafottente facendo passare quasi in secondo piano gli aspetti giudiziari. Basti citare un paio di episodi narrati ancora dalla Cederna in Nostra Italia
del miracolo (Longanesi): «Un giorno porta in gita un’indossatrice inglese ma investe un palo e la ragazza perde la vista. “Tanto era racchia”, sarà il suo commento. Un’altra volta investe un cameriere e gli spacca le gambe: “Per quello che ti servono, così impari”». O ancora il ridicolo puntiglio con cui si imbronciò per la spassosa e fe- roce imitazione che di lui aveva fatto in tivù Alighiero Noschese: «Mai portato, io, un foulard al collo!» Per non dire dell’allegria demenziale con cui, inseguito da una condanna per bancarotta fraudolenta, sventolava ancora a Beirut, con Maurizio Chierici, la sua fama di sciupafemmine: «Dai, non partire. Dopodomani compio gli anni. Trentacinque. Ci saranno le più belle donne del Medio Oriente. Una cosa seria. Ora che la rompiscatole è andata via, sento i diciotto anni che ballano dentro. Dai, per favore, resta che ci divertiamo!» La «rompiscatole» era la moglie Luisella. Liquidata in tre righe: «Gelosa da impazzire. Quando una ragazza era più alta di lei gli inviti finivano. Cancellata. Figurati, Luisella! Coliche renali, vene varicose, almeno dieci cure dimagranti...»
TUTTA ANEDDOTICA che fece dimenticare, alla lunga, il senso vero della storia:
in quella Italia dove ancora si provava pudore per una bancarotta (tanto più se aveva rovinato migliaia di operai) Felice Riva fu colui che si liberò per primo del senso della vergogna. Una specie di pioniere dell’imprenditoria amorale. Scrisse Indro Montanelli: «Questo figlio di papà che senza nessun merito personale eredita miliardi e se ne serve soltanto per finanziare i suoi lussi e la sua insolenza,
questo giovinastro viziato e vanitoso, esibizionista e fatuo, che si credeva autorizzato per divina investitura a una vita di nababbo, disonora non solo se stesso, ma tutta la classe imprenditoriale a cui appartiene.
Io sono un convinto assertore dell’iniziativa privata. Ma riconosco ch’è difficile difenderla quando s’incarna in campioni come il Riva. Ed è per questo che lo considero un delinquente». E non una «simpatica canaglia».