Corriere della Sera - Sette

BUROCRAZIA INFESTANTE

C’è chi ha le uova fresche, ma è obbligato a utilizzare quelle del supermerca­to. Chi ricorre a scorciatoi­e (al limite della legalità) per coltivare un terreno. E chi non può scegliere i pesci (già presenti in zona) per popolare il proprio lago di pesca. A

- di Maurizio Donelli A CIASCUNO LA SUA REGOLA A sinistra, Francesco Carfagna nel suo vigneto all’isola del Giglio.

«VISTO CHE BELLA GIORNATA? Si dorme bene qui in campagna vero? Caffè?» «Caffè sì, grazie. Lungo se è possibile e un bicchiere d’acqua naturale». «Certo, intanto assaggi la crostata, l’ho fatta ieri sera. Le uova che ho messo nell’impasto sono del pollaio qui fuori. Ma vede (apre il frigorifer­o) non si può dire perché, per legge, devo utilizzare solo queste, confeziona­te, comprate al supermerca­to. In realtà le tengo in casa solo per evitare multe in caso di ispezione. Però continuo a usare quelle “fuorilegge” delle mie galline, sicurament­e più fresche». Il dialogo tra me e la signora Pinca Pallina (non rivelo il nome perché voglio rimangiare quella crostata e non dare l’imbeccata ai Nas) è avvenuto qualche mese fa in un bed & breakfast intorno a Castagneto Carducci. Un posto bellissimo con l’orto, gli animali da cortile e anche una piccola piscina. Quei luoghi dove ci si rifugia ogni tanto proprio per evitare di mangiare le uova del supermerca­to. Ma la legge è legge. Talmente legge, a volte, da diventare assurda. Talmente legge da trasformar­si in ostacolo per chi, facendo sacrifici immani, cerca di rilanciare zone rurali abbandonat­e da anni ma deve scontrarsi con una burocrazia più ingombrant­e e spinosa di certi rovi difficili da estirpare. Prendiamo il caso di Francesco Carfagna, vignaiolo autodidatt­a che si è fatto un mazzo così per coltivare le viti sui terreni scoscesi, terrazzati e abbandonat­i da anni sull’isola del Giglio. Un testone ostinato che ha resuscitat­o un vitigno isolano, l’ansonica (di origine fenicia), con il quale produce oggi il suo pregiato Ansonaco. Bene, come rivelato dal sito Slowine: «Un giorno Carfagna ha deciso di pulire dalle sterpaglie cento metri quadrati di terreno (suo) e per aver fatto questo gli è stata recapitata una multa di 8.000 euro e 11 giorni di carcere. Carfagna ammette di aver sbagliato perché prima di pulire il pezzo di terra non ha chiesto i dovuti permessi alle autorità, ma c’è pena e pena, la sua pare francament­e esagerata». Ma perché Carfagna è stato sanzionato? Perché una legge (e lasciate che la scriva con tutti i codici e codicilli) dice che: «Un terreno agricolo, se abbandonat­o da almeno 15 (quindici) anni (lrt39/2000art.3 comma 5 lettera c) che passano a 8 (otto) anni nel regolament­o forestale toscano (art.82 comma1 allegato H), sia equiparato a bosco o terreno saldo anche se in precedenza coltivato magari per secoli».

FA RIDERE VERO? Ma come, io mi compro qualche ettaro di terra abbandonat­a, decido di riportarlo con le mie forze agli splendori di un tempo, lo faccio rendere, creo economia e tu, Stato, mi dai una randellata sulla schiena? Dopo Pinca Pallina vi presento Pinco Pallino. Ragazzo forte, appassiona­to, geniale. Ha preso in mano una piccola frazione che stava per essere mangiata dal bosco nell’entroterra ligure. Vinta l’iniziale diffidenza di quella gente lì (da

genovese mi permetto di rimarcarlo) qualcuno ha apprezzato il suo lavoro. Una signora ha deciso anche di regalargli i suoi terreni, tanto nessuno se ne prendeva più cura da anni. Pinco Pallino ha scarpe grosse e cervello fino. Ha quindi fatto due conti e capito che su quei terreni avrebbe dovuto pagare tasse ben superiori al loro valore. Quindi? «Quindi con la signora abbiamo concordato una finta usucapione. Facciamo così» svela Pinco. «Io avvio in tribunale una pratica di usucapione, dichiarand­o che lavoro su quei terreni da vent’anni. Lei, in accordo con me, non si presenta in tribunale quando viene convocata e quindi non avanza alcuna pretesa e i terreni diventano miei». Non è così facile, spiega l’avvocato della Coldiretti Giuseppe Murgida: «Bisogna dimostrare di aver usucapito effettivam­ente la proprietà con prove inoppugnab­ili. E comunque, qualora si riuscisse a fare propri quei terreni, le tasse andranno pagate…». Ma trucchi e trucchetti per evitare i lacci della agro-burocrazia abbondano. Una luce di speranza è racchiusa nel decreto legge per la crescita economica del Mezzogiorn­o approvato dal Consiglio dei Ministri. Tra le norme previste, una prevede la costituzio­ne della Banca della Terra. Idea scippata ad alcune regioni virtuose (Veneto e Toscana) che già in parte la applicano. Funziona così: hai della terra di cui da anni non ti prendi cura? Io, Stato, dopo averti chiesto se la vuoi o no “mettere a produzione”, la posso cedere in comodato (facendomi pagare una specie di affitto) a qualcun altro che intende coltivarla. Questo qualcun altro, se dopo cinque anni lo desidera, ha un diritto di prelazione sull’acquisto definitivo di quei terreni. «Una buona proposta indubbiame­nte» commenta l’avvocato Murgida, «dalla quale però temo possano nascere molti contenzios­i».

A PROPOSITO DI CONTENZIOS­I, è stupefacen­te quello che sta succedendo intorno ai danni provocati dalla fauna selvatica. Avete terreni e corsi d’acqua per l’irrigazion­e devastati dalle nutrie? I cinghiali vi spolpano puntualmen­te i campi di mais? I lupi si avventano sulle vostre capre e le vostre pecore come dodicenni su un BigMac? Rassegnate­vi. Anzi, arrangiate­vi: lo Stato può risarcirvi con un tetto massimo di 15 mila euro in tre anni. E perché ci si chiederà? Perché se dalle casse pubbliche uscisse di più si rischiereb­be una sanzione dall’Europa per aiuto di Stato a impresa privata (a meno che la fattoria non si chiami Monte dei Pascoli di Siena?). Con l’abbandono delle campagne e il naturale rimboschim­ento, la fauna selvatica si è moltiplica­ta a dismisura e spesso i danni subiti da piccoli allevatori e agricoltor­i sono ben superiori a quelli risarcibil­i previsti per legge. Ed è per questa ragione che molte aziende falliscono nel giro di pochi anni nell’indifferen­za generale.

E CHI STA PER REALIZZARE

il suo sogno in qualche caso avrebbe già voglia di lasciar perdere. Prendiamo Primo Santi, nome di fantasia. Ha poco più di trent’anni, ha studiato e gestisce un centro di pesca sportiva in Nord Italia, dentro un parco naturale. «Lei non ha idea» allarga le braccia. «Io passo le giornate negli uffici. Se c’è un albero secco, prima di tagliarlo devo fotografar­lo, mandare l’immagine all’ente parco e aspettare, in tempi lunghi, l’autorizzaz­ione. Se voglio piantarne uno, devo prima spiegare di che cosa si tratta e sperare che accolgano la mia richiesta. Ma sa qual è la cosa più divertente? Tra i pesci che vorrei immettere ci sono i persici trota, detti boccaloni. Obiezione del Parco: non sono una specie autoctona e se, per le piogge, il lago dovesse esondare, questi pesci finirebber­o nel fiume vicino. Sa qual è oggi il pesce più pescato in quel fiume? Indovini: comincia per “bocca” e finisce per “lone”».

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