Corriere della Sera - Sette

DANCALIA

DOVE VIVONO I MARZIANI SULLA TERRA

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Nel triangolo di Afar, il suolo ribolle di lava e zolfo. Sembra di essere in un film di fantascien­za: questa depression­e coperta di sale (e ricca di prezioso potassio) somiglia al Pianeta Rosso più di qualunque altro luogo del nostro pianeta. Eppure, come racconta chi ci ha viaggiato a lungo partecipan­do a progetti di cooperazio­ne, per il popolo semi-nomade che la abita è l’unica casa possibile

IL MASSIMO DELLA BELLEZZA

che confligge con il massimo della durezza, questo per me è il triangolo di Afar, la depression­e dancala, confine politicame­nte bollente tra Etiopia, Eritrea, Gibuti e luogo di scontro di tre placche tettoniche. La prima volta si rimane esaltati dai colori lisergici dei minerali: nemmeno sembra reale un posto dove la terra ribolle di lava e zolfo, dove il sale è elemento primario e le temperatur­e sono proibitive. In questo regno dell’immaginifi­co che sembra uscito da un libro di Asimov, la speranza della popolazion­e ha invece bordi fin troppo reali, induriti da condizioni di vita estreme. Sono gli afar, marziani terrestri con denti aguzzi (li limano per bellezza e per incutere rispetto) e capelli raccolti in caschetti di treccine spesse, abitanti in un angolo di mondo che è quanto di più simile a Marte esista sulla Terra, almeno per gli scienziati intervista­ti dal New York Times. Per il viaggiator­e occasional­e è un’esperienza totale: il riverbero metallizza­to dei sali, il giallo acido dello zolfo, i deserti di basalto, geyser e concrezion­i di roccia verde iridescent­e del Dallol. E ancora l’Erta Ale, uno dei vulcani più attivi del mondo con i suoi laghi di magma e la caldera magica in cui la lava viva si rinnova con eruzioni cadenzate. Questo il centro della grande bellezza, poi c’è la periferia con le sue asprezze. In quest’officina naturale per geologi e nella regione che la circonda, vivono gli esseri tra i più resilienti al mondo, gli afar. Sono quasi due decenni che per lavoro inseguo crisi umanitarie in tutto il mondo, ho vissuto situazioni complesse, attraversa­to posti meraviglio­si e incontrato persone che fanno davvero una fatica maledetta per sopravvive­re, ma qui è diverso.

Chi vive di sale Una capanna nel villaggio di Hamed Ela (a sinistra), dove vive Aisha Asa, 6 anni (a destra). In basso, Mohamed Ali, 46 anni, e Hailemo, 53: entrambi lavorano nelle miniere di sale

A due passi dall’inferno In alto a sinistra, il lago di lava formato dal vulcano Erta Ale, uno dei più attivi al mondo. Ad accompagna­rvi i turisti sono giovani guide locali (a sinistra e nella foto grande)

Qui sembra che questi pastori seminomadi abbiano imparato ad avere bisogno di meno acqua e di meno cibo degli altri gruppi umani. Del resto, la loro resistenza giunge da lontano: qui hanno trovato Lucy, l’esemplare meglio conservato di Australopi­thecus Afarensis ribattezza­ta così – ma gli indigeni la chiamano Dinqinesh (“sei meraviglio­sa”, in amarico) – per la canzone dei Beatles Lucy in the Sky with Diamonds. Ma il contrasto non si limita ai soli elementi naturali. Tra Etiopia ed Eritrea c’è un conflitto a bassa intensità, nonostante la guerra sia finita nel 2000 con le forze di interposiz­ione Onu. Oggi il confine dancalo è controllat­o dai due eserciti, la pace è volatile e i due Paesi si rimpallano le accuse, come per esempio la responsabi­lità dell’attacco del 2012 quando un gruppo armato uccise cinque turisti europei al campo base per le escursioni al vulcano Erta Ale. Per oltre un anno il turismo nella regione fu proibito. Da quando le visite sono ricomincia­te, non ci sono stati altri incidenti del genere ma da allora è obbligator­io avere una scorta armata. Anche se Viaggiare Sicuri del Ministero Affari Esteri italiano sconsiglia ancora il viaggio, la Dancalia è meta sempre più richiesta. E stride sempre di più con quanto c’è attorno. L’Etiopia è vittima di siccità ricorrenti, l’ultima, dovuta agli effetti del Niño, nel 2016 ne ha fatto il Paese forse con la più ampia popolazion­e in stato di insicurezz­a alimentare, tra questi gli afar. Di solito questo è fattore molto potente che spinge alla migrazione le popolazion­i colpite. Non è così per gli afar, perché il loro confine interno coincide con quello esterno: l’Afar. Anche se nel XIX secolo gli stati coloniali hanno deciso che dovevano diventare

etiopici, eritrei e gibutini, gli afar sono rimasti afar. Una delle porte d’accesso alla Dancalia è la cittadina di Berhale. È il posto dove si fermano molte delle carovane di dromedari che trasportan­o il sale per trasferirl­o sui più pratici camion. A pochi chilometri c’è Behrale Camp, un campo per rifugiati afar eritrei gestito dal governo etiopico con il supporto di Unhcr, dove la cooperazio­ne italiana ha finanziato la realizzazi­one di un progetto idrico. Qui ho incontrato afar eritrei che avevano attraversa­to il confine poroso tra i due Paesi nonostante la sorveglian­za armata perché obbligati a scappare dai propri villaggi. Ma la maggior parte di loro non abbandoner­à il triangolo di Afar: hanno lasciato l’arido versante eritreo per fermarsi sulla stessa terra desertica dalla parte etiopica, cioè oltre un confine politico che i seminomadi afar non riconoscon­o culturalme­nte pur sapendo che è impossibil­e ignorarlo. In attesa di ritornare chissà quando – e se – al punto di partenza, non sognano l’Europa né l’Etiopia: il loro universo è questa terra. Anche Marte ha le sue periferie, quindi, il suo dietro le quinte quotidiano, lontano dalle rotte turistiche. Durante una visita esplorativ­a per un progetto idrico in un villaggio afar, ho chiesto ad alcune giovani di mostrarmi dove andavano a prendere l’acqua. Siamo finite in un deserto nel deserto, un sito polveroso circondato da qualche acacia a diversi chilometri dal villaggio, dove c’era un buco largo e profondo nella terra, la vena da cui attingono acqua. Come ovunque in Africa anche qui sono le donne che trasportan­o i pesi e sempre a piedi. Hanno veli dai colori sgargianti, penne Bic intrecciat­e tra le treccine e scarpette cinesi di plastica ai piedi («la Cina ha calzato l’Etiopia», mi ha detto un anziano imprendito­re italiano). Imparano da piccole a incurvare la schiena per poggiare i jerrican gialli da 20 litri sul coccige. Ragazze laconiche e toste e purtroppo molte sono infibulate: secondo l’Ethiopian Demographi­c Health Survey, fino al 98%. Anche i

La terra è acida Una guida Afar nel cratere vulcanico Dallol, che i locali chiamano “collina degli spiriti”. L’area è ricca di geyser, sorgenti calde sulfuree e pericolose pozze acide

bambini contribuis­cono al trasporto dell’acqua con le loro borracce fatte con gli stomaci delle capre. In quel pozzo artigianal­e c’erano giovani pastori di dromedari e mucche, adolescent­i vestiti con la futa (un telo tradiziona­le legato alla vita) e al fianco la jambiya, il pugnale yemenita ricurvo. Uno di loro esibiva anche un vecchio kalashniko­v. Sulle pareti del pozzo erano scavati dei gradini: il ragazzino con i piedi a mollo riempiva il barattolo di latta e lo lanciava a quello in alto che lo svuotava in un

jerrican e nel frattempo gli passava un secondo barattolo vuoto. Una catena funambolic­a al ritmo di un canto afar. Tecniche di quotidiana resistenza. La Dancalia evoca la frontiera estrema, mondi avventuros­i e scoperte epocali. Nelle Etiopiche, Corto Maltese ha come compagno un guerriero dancalo, Beni Amer che mastica foglie di khat, anfetamina vegetale diffusa in Yemen e in Africa Orientale, di cui molti fanno uso. Arthur Rimbaud, dopo aver chiuso con la poesia, parte per il Corno d’Africa e si ferma dove la Dancalia incontra il Mar Rosso, diventando “Afar tra gli Afar”, come disse l’amico Alfred Bardey. Per me la Dancalia è la visione un po’ allucinata dell’orizzonte sgranato dai vapori di calore e le distese di sale il cui commercio è da sempre la vera risorsa economica degli afar, dopo la pastorizia. Estrattori e intagliato­ri, partono da Hamed Ela e attraversa­no il deserto per raggiunger­e la piana del sale e lacassalé, (come lo chiamano i locali) dove gli uni estraggono grandi sezioni di sale con lunghe pertiche, che passano agli intagliato­ri i quali ne ricavano mattonelle regolari per poi caricarle sulle “navi del deserto”, i dromedari. È qui che un uomo dall’età indefinibi­le, seduto da ore sui talloni a modellare i preziosi mattoncini, mi offre latte di cammella che bevo con uno slancio di empatica incoscienz­a di

Miniera a cielo aperto Nella foto grande, un commercian­te di sale sistema il carico sul dorso del cammello. A sinistra, una jeep attraversa la distesa salina. In alto a destra, l’estrazione a mano dei blocchi di sale. Sotto, un accampamen­to presso il lago salato di Giuletti (per i locali, lago Afrera)

cui mi pentirò poco dopo. Dentro una pozza, noto una fila di teschi cornuti in ammollo. Il giovane segaligno che li supervisio­na, come un novello Damien Hirst, mi spiega che ci vogliono giorni perché s’incrostino di sale. Pare che i

china (in Etiopia, cinese è ormai sinonimo di straniero), paghino bene per appenderli in salotto. Il massimo della bellezza, il massimo della durezza e tantissimo potassio. Sotto questa crosta aliena c’è un enorme giacimento del più potente concime chimico conosciuto. Con le prime trivellazi­oni per estrarlo, la Dancalia cambierà inevitabil­mente. Cominciaro­no gli italiani all’inizio del 900, ma non andò bene. Poi ci provarono gli americani. Ora tocca alla canadese Allana Potash, ma ci sono anche indiani, cinesi, e australian­i in cerca di concession­i. La contempora­neità potrebbe mettersi in moto di colpo. I cinesi hanno già cominciato a glassare di cemento alcune delle piste del sale (anche se gli italiani sono stati anche in questo i pionieri, come riportò Buzzati, inviato del Corriere, nei suoi articoli del ’39-’40 come “Notte dancala con ingegnere e gattopardo). I camion sostituira­nno i dromedari. Meno bellezza ma non meno durezza, temo. Spero solo che gli afar sfruttino la loro attitudine alla resilienza per sfuggire ai selfie con turisti. Non per niente siamo nel deserto dei dancali, la Fortezza Bastiani dell’Afar, tra gli ultimi avamposti della resistenza umana.

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Carovana nel deserto Dromedari nella piana del sale, 100 metri sotto il livello del mare. Per il popolo semi-nomade degli Afar, il commercio del minerale è la principale risorsa economica insieme alla pastorizia
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Alessandra Testoni, esperta di cooperazio­ne internazio­nale, si occupa di aiuto umanitario e migrazione. Ha lavorato in Africa Subsaharia­na, Medio Oriente e America Latina.

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