Le innocenti matricole del terrorismo
Bambini di pochi anni. Rapiti nei villaggi yazidi. Indottrinati all’estremismo islamico. Addestrati al terrorismo. Ricomprati dalle famiglie. Cosa possiamo fare adesso per loro?
L’IMMAGINE DEL BAMBINO risulta ben nitida sullo schermo del cellulare. Indossa l’uniforme militare, non fissa l’obbiettivo, ma tiene lo sguardo abbassato verso un punto indistinto del tappeto. Sulla fronte ha la bandana nera dei jihadisti di Isis con la scritta bianca di quelli pronti al “sacrificio”. E dietro di lui, in sottofondo, si distinguono tanti altri ragazzini, tutti inginocchiati e vestiti da soldati. Sua madre, di cui possiamo solo citare le iniziali, N.H., sino ad ora ha parlato con voce sommessa, timida, a tratti monotona. Indossa una lunga tunica scura che le arriva alle caviglie con un velo beige sul capo. Dimostra più dei suoi 32 anni. Ma quando fa vedere la foto del figlio i suoi toni si ravvivano: «Questo è Jamal. Ha solo undici anni. Adesso vogliono che si faccia saltare in aria contro i curdi e gli americani che attaccano
Raqqa. Lo hanno indottrinato e addestrato a compiere missioni kamikaze. E lui obbedirà agli ordini. Presto sarà morto dilaniato. A meno che non si paghino 10.000 dollari per liberarlo. Ma noi non abbiamo tutti quei soldi. Poi faranno lo stesso con il mio secondo figlio di nove anni. Anche per lui chiederanno il riscatto». Quante volte abbiamo sentito le storie incredibili delle sofferenze degli yazidi che giungono dal buco nero del Califfato? Infinite, sono talmente numerose che pur nella loro assurda crudeltà ne siamo come assuefatti. Eppure, ogni volta che le si torna a incontrare dal vivo tra le vittime, nel mezzo di questa umanità dolente, torna violento quel senso originario di stupore che sconvolse il mondo quando nell’estate del 2014 Isis massacrò a sangue freddo migliaia e migliaia di uomini yazidi nei loro villaggi tra Iraq e Siria, ne rese schiave sessuali mogli, madri e figlie, quindi si impadronì dei bambini per farne piccoli soldati fanatici, vere macchine da guerra pronte per essere immolate in nome del “Califfo”. Abbiamo incontrato questa e altre madri di bambini rapiti nei campi profughi di Dohuq, nell’Iraq settentrionale, sulla via di Raqqa, la capitale siriana di Isis oggi sotto assedio. N.H. è stata liberata dalla famiglia per 6.000 dollari pochi mesi fa. «Isis si rivela un’organizzazione criminale che tratta esseri umani. Altro che difensori dell’Islam! Vogliono arricchirsi. E per noi che cerchiamo di aiutare le vittime si presentano problemi enormi. Tra cui uno molto grave: che fare dei bambini che eventualmente riusciamo a liberare? Come sdottrinarli, come affrancarli da tre anni di educazione alla morte, alla guerra, all’odio per chi non condivide l’ideologia di Isis?», domanda Nezar Ismet Taib, psicologo e responsabile della sanità per l’amministrazione curda di Dohuq. Il tema torna all’ordine del giorno adesso che la dimensione territoriale di Isis è stata smembrata nella regione di Mosul ed è sotto assedio a Raqqa. Lo abbiamo verificato nei campi profughi attorno alla città irachena, ma anche nei quattro maggiori a nord di Raqqa, dove nelle ultime settimane sono stati raccolti oltre 60.000 sfollati. «Qui siamo del tutto inadeguati a trattare i bambini soldato di Isis. C’è bisogno di pedagoghi, psichiatri, psicologi, educatori. La fascia più delicata riguarda quelli tra i 6 e 18 anni d’età. Per 36 mesi hanno subito il metodico lavaggio del cervello, alcuni sono stati utilizzati per assassinare i nemici di Isis, hanno visto prigionieri torturati, ogni giorno hanno subito lezioni di odio, gli è stato detto che uccidere i non credenti è non solo giusto, ma soprattutto benedetto da Allah e dal sacro Corano», dice Nagham Hasan, ginecologa yazida impegnata tra ciò che resta delle famiglie. Circa 6.000 donne e bambini yazidi vennero catturati. Meno della metà pare siano liberi ad oggi: alcuni scappati, per molti sono stati pagati riscatti. A loro si aggiungono molto più numerosi i bambini delle famiglie sunnite residenti nelle regioni
che sino a poco fa erano in mano a Isis. Saranno capaci di reintegrarsi? A Dohuq si guarda con paura alla vicenda di un ragazzino orfano yazida che poche settimane fa ha tentato di accoltellare uno zio accusandolo di essere un “kafir”, un miscredente, solo per il fatto che non voleva
pregare di venerdì. Tanti non parlano più curdo, ma solo arabo. Tanti considerano la lettura estremista del Corano come una verità assoluta, indiscutibile. Vittime assolute di un’ideologia terribile, eppure anche potenziali “mine vaganti” ben addestrate all’uso delle armi. Era lo stesso problema che si trovarono di fronte gli Alleati tra le rovine di Berlino nel 1945 impegnati a combattere i minorenni fanatici della Hitlerjugend. Non a caso nel campo profughi di Al Karama (al momento 35.000 persone) gestito dall’Onu a Ain Issa, 57 chilometri a nord di Raqqa, i funzionari locali hanno la disposizione di fare attenzione ai bambini che a scuola si dimostrano particolarmente violenti con i compagni. Tra loro ci sono quelli che considerano le ragazze yazide ex “schiave” di Isis come potenziali prostitute. E per queste si sta presentando un ulteriore problema, di cui ancora si parla con riservato pudore. «Dall’Europa, specie dalla Germania, dove ad oggi sono emigrati oltre 70.000 yazidi, giunge voce che parecchie ragazzine siano state trovate nei bordelli locali. Abusate da Isis, ostracizzate tra le loro comunità, rischiano di finire a esercitare ciò che è stato imposto loro con la forza», dice ancora la dottoressa Hasan. Il tema sta particolarmente a cuore all’avvocato Abdel Munam, ex membro del consiglio municipale di Raqqa, oggi sfollato a Ain Issa, il quale lancia l’allarme sulla sorte dei «figli dei volontari stranieri di Isis». Non sappiamo quanti siano. Sappiamo però che potrebbero essere centinaia, se non migliaia. Isis aveva spinto i suoi combattenti migliori a procreare una nuova generazione di “figli del
Califfato”. «Che status avranno dunque questi bambini? Chi si occuperà di loro? Molti sono ormai orfani, i padri morti o alla macchia. Li accetteremo come cittadini siriani o iracheni?», si chiede Munam. Una questione correlata si presenta per le famiglie dei “foreign fighters” arrivate dall’estero, che adesso si dicono “pentite” e vorrebbero
tornare ai loro Paesi d’origine. È il caso di sei donne indonesiane con tre bambini che nel 2015 si unirono ai combattenti di Isis a Raqqa e da un mese sono riuscite a raggiungere Al Karama, dove sono tenute
sotto libertà vigilata in una tenda. «I nostri uomini sono prigionieri dei curdi nel carcere di Kobane. Noi vorremmo almeno vederli e poi ottenere il permesso di tornare alle nostre case a Jakarta», ci dice una di loro, la 32enne Difansa Rahman. A suo dire, loro sono tutte “pentite”, deluse da Isis e dalle sue “false promesse”. Ma le autorità di Rojava, il governo dell’autonomia curda nel nord-est siriano, non si fida.
UN RAGGIO DI SPERANZA
arriva però dalle parole degli ex bambini-soldato yazidi, che incontriamo nel campo di Qadia, presso Zakho. Sono Milad e Majid, due fratellini orfani rispettivamente di 4 e 7 anni. Entrambi hanno un sorriso dolce e affermano di aver rifiutato con tutto il loro cuore ciò che era stato loro insegnato durante i due anni trascorsi nelle scuole di Isis. «Non ci piacevano le armi e i film che ci proiettavano per imparare a combattere e uccidere», sostengono. Sui loro disegni i militanti di Isis sono sempre colorati di nero, spesso assieme a serpenti e scorpioni. Sahera Abdo, 12 anni, riscattato dagli zii per 10.000 dollari è però contento di fronte a noi di cimentarsi in due capriole fingendo di avere imbracciato un kalashnikov, come gli aveva mostrato l’istruttore di Isis. Il mitra lo stanno usando invece davvero le 9 ragazze yazide che sono state ripetutamente violentate dalle brigate di Isis prima di riuscire a fuggire e oggi fanno parte di un’unità speciale che lotta con i curdi sul fronte di Raqqa. Si fanno chiamare “le vendicatrici” e si propongono di aiutare le ragazze che via via trovano per le vie e le case della città devastata dalla guerra.