Enrico Vanzina: «Per capire gli italiani basta una battuta di Totò. “Ma mi faccia il piacere..!”»
Una guida alla comprensione del carattere nazionale attraverso i grandi comici. Da Alberto Sordi («Copiò gli italiani ma lo fece così bene che alla fine gli italiani copiarono lui») a Paolo Villaggio («Capì gli italiani medi, ma essendo un italiano alto n
LE COSE PIÙ BELLE (ED ESATTE) SU ENRICO VANZINA le ha scritte Giampiero Mughini (che è anticonformista di sangue). Del figlio di Steno (il maestro della commedia all’italiana) e fratello di Carlo, il regista di Vacanze di Natale e di film che per anni hanno costituito da soli il Pil del cinema nazionale, Mughini ha scritto che è un «moralista» nel senso migliore della parola, «un italiano all’antica», «un inguaribile nostalgico». Non male per uno dei padri del cinepanettone. Ascoltare Enrico Vanzina, in quest’epoca di chiacchiericcio indifferenziato (nel senso della raccolta), rinfranca. Era da tempo che volevo intervistarlo sul tema della comicità (la chiave per capire quella cosa non semplicissima e non comicissima che è l’italianità). Ero sicuro che mi avrebbe detto parole non scontate, cose vissute in prima persona. Eccole. Cominciamo dal lutto recentissimo. Paolo Villaggio era l’ultima maschera espressa dalla comicità italiana o ce ne sono altre? «Paolo Villaggio, soprattutto nei ruoli di Fracchia e Fantozzi, era una maschera vera. Se parliamo di “maschere”, penso alludendo ad Arlecchino, Brighella, Balanzone, Pulcinella, altre in giro non ne vedo. Esiste, però, una figura anomala che si aggira con prepotenza comica nel panorama del cinema contemporaneo italiano: Checco Zalone. Non saprei definirlo ma è un altro fuoriclasse». Carlo Verdone è una maschera oppure per lui bisogna fare un discorso diverso? «Carlo Verdone è un attore, uno sceneggiatore e un regista. Non è una
“maschera comica”. Tuttavia, con il passare degli anni e con l’accumulo dei suoi film, è venuta fuori una sorta di “maschera Verdone”. È l’italiano perbene, timoroso, goffo, ipocondriaco. Voglio dire che il regista Verdone usa come personaggio Verdone». Quanti tipi di comici e di comicità ci sono? «Forse esistono comici con sfumature diverse. Ma io ho sempre pensato che di comicità ce n’è una sola: quella che fa ridere». Di che livello è la comicità sul web? «La frequento poco. È farsesca, dissacratoria. Di solito è parodistica. Non vedo molti esempi di comici/web che inventano un mondo nuovo. Sfottono, fanno satira, spesso feroce, ma non hanno quasi mai la grazia della autentica comicità». Una domanda tecnica allo sceneggiatore: come si scrive una battuta o una situazione comica? «Il commediografo americano Neil Simon, nella sua autobiografia, ha detto: “Il vantaggio di essere uno scrittore comico è che certe volte ridi prima”. È così. Non esiste una ricetta per scrivere una battuta comica. Se arriva, te ne accorgi. Voglio dire: per scrivere battute comiche bisogna essere spiritosi. Tutto qui». Seconda domanda tecnica: come non si scrive una battuta o una situazione comica? «Non bisogna copiare. Quasi tutte le battute che sento nei film sono una fotocopia sbiadita di una battuta originale splendente». Proviamo a fare una classifica dei grandi comici italiani. Primo: Totò. Secondo: Sordi. E poi? «Devo proprio? Sembra un giochetto da serate in casa di Enrico Lucherini. Comunque… Totò maglia rosa, poi naturalmente Alberto Sordi. Al terzo posto forse Roberto Benigni e Gigi Proietti. E dietro il gruppone degli altri che segnalo senza graduatoria: Paolo Villaggio, Renato Pozzetto, Diego Abatantuono, Luca Medici, Vincenzo Salemme, Enrico Montesano, Carlo Buccirosso, Massimo Boldi, Christian De Sica, Enrico Brignano, Claudio Bisio, Alessandro Siani, Fabio De Luigi, Ezio Greggio, Nino Frassica, ecc. Ci tengo, però, a citare le colonne del passato: Peppino De Filippo, Walter Chiari, Paolo Panelli, Rascel, Aldo Fabrizi, Macario, Franchi e Ingrassia, Tognazzi e Vianello. Mi fermo. Ne ho dimenticati mille. Non mi piace questo gioco… Un discorso a parte vale per Massimo Troisi. Fuori categoria. E certe donne: Monica Vitti, Franca Valeri, Bice Valori, Tina Pica…». Spiacente, ma vorrei continuare a “lucherineggiare” con la classifica degli scrittori comici. Chi è il primo? Campanile? Oppure Villaggio? E poi? «Certo, Campanile, Villaggio. Ma sicuramente anche Marcello Marchesi, Vittorio Metz, Giovannino Guareschi, Enrico Vaime, Dino Verde. Pure qui la lista si può allungare. Ma in realtà gli scrittori “buffi” italiani non sono tantissimi. La comicità letteraria è stata considerata di serie B. Tutto ciò è smentito da certe pagine irresistibili di Ennio Flaiano che dimostrano il contrario». Nel corso della vita le cose che fanno ridere cambiano. Lei di cosa rideva quando era ragazzo, giovanotto, ecc.? Riesce a differenziare le varie stagioni della sua esistenza a seconda dei comici che la facevano ridere? Oppure si ride sempre delle stesse cose? «Buona la seconda: si ride sempre delle stesse cose.
Quando mi capita di lavorare con Gigi Proietti cerchiamo di riassumerle: la fame, le corna, la jella, la merda, lo scambio di persona. Se uno ci pensa bene sono già i grandi temi del teatro dell’Antica Roma. Quando leggo che un giovane regista dichiara “Ho fatto una commedia, ma diversa...”, penso subito che è un cretino». Negli anni Ottanta l’Italia si divise in due partiti a proposito di comicità televisiva. C’erano quelli che stavano con Drive In e quelli che stavano con le trasmissioni di Arbore. Sono state effettivamente due scuole di umorismo distinte? O, per dirla diversamente: esiste una comicità romana, sudista (Arbore) e una milanese ( Drive In)? «Ci sono effettivamente scuole di comicità. Quella più forte è di stampo napoletano, perché ha avuto ’o teatro dietro. Quella romana è immensa soprattutto grazie al cinema. Quella sudista, arboriana, è un mix Napoli/Bari/ Palermo, è una comicità fusion. La comicità del Nord, nata con Tino Scotti, Chiari e Campanini si è rafforzata solo quando è arrivato il cabaret». C’è stato un grande comico rimasto incompreso? «Enrico Fulchignoni, che negli Anni 60 lavorava all’Unesco e si occupava di comicità globale, un giorno mi parlò di uno straordinario comico egiziano…». Ricorda la prima battuta, parola, situazione, immagine, faccia o altro ancora, che l’ha fatta ridere? «L’episodio esatto non lo ricordo. Ricordo però che ho scoperto la comicità vedendo Stanlio e Ollio». Nel momento in cui la interrogo sulla comicità, mi viene in mente che la sua natura più vera e nascosta è, in realtà, malinconica (come tutti quelli che praticano l’umorismo). Penso anche alla sua Trilogia di romanzi di gusto hard boiled con il detective Max Mariani, un nipotino di Philip Marlowe e di Sam Spade. Chi sono i suoi campioni letterari di malinconia? «Al primo posto Lord Jim di Conrad. Al secondo Ulrich di Musil ne L’uomo senza qualità. E al terzo posto Gustav von Aschenbach, il protagonista di Morte a Vene
zia di Thomas Mann». Da Totò in poi, lei ha conosciuto personalmente tutti i grandi comici. Mi racconta una sua impressione su ognuno di loro? «Totò era un signore. Sordi era un genio. Villaggio era intelligente. Verdone è davvero ipocondriaco, in ma- niera buffa. Pozzetto è stralunato. Abatantuono è una forza della natura. Brignano è una macchina. Checco Zalone è timido. Adesso basta. Non voglio fare il Mereghetti…». Lei scrive (e non pubblica) magnifiche, brevissime e intense biografie che riassumono il senso della vita dei soggetti presi in esame. Me ne regala tre su altrettanti grandi protagonisti del cinema italiano? «Sordi: copiò gli italiani e il suo modello divenne talmente forte che alla fine gli italiani copiarono lui. Totò: scisso tra il principe De Curtis e la maschera di Totò, provò a regnare su se stesso ma alla fine il principe fu detronizzato dal povero. Villaggio: capì gli italiani medi, ma essendo un italiano alto non capì se stesso». Parliamo un attimo di calcio. Ognuno ha il suo campione. Lei ha avuto Francesco Totti. Mi dice perché? «Il mio campione è stato Francesco Totti perché, senza falsa modestia, io capisco sul serio il calcio. Lui è stato il più bravo, il più perbene, il più autentico. Ma se vogliamo salire di livello il più grande di tutti, mi dispiace per Maradona, Ronaldo e Messi, è stato Pelé. Il calcio è Brasile. Come la filosofia è greca». E l’umorismo di cui Totti è dotato ha contato nel suo innamoramento? «Certo. Ma quello riguarda l’aspetto personale. Io Francesco calciatore lo amo per le sue qualità sportive. Amo lui e Gianni Rivera». Ora chi sarà il suo campione? Oppure non ce ne sarà più uno come Totti? «Passiamo alla prossima domanda». Quali sono i film che l’hanno fatta piangere? «Tantissimi. Sono molto normale. Ho pianto anche con
Love Story. Il guaio è che, invecchiando, piango più spesso. Piango quando arriva sullo schermo una emozione. E non per forza deve essere lacrimosa». Qual è la scena o la battuta comica che riassume da sola il carattere italiano? «Quella di Totò: “Ma mi faccia il piacere...”. Spiega alla perfezione come siamo fatti in questo Paese. Di fronte ai potenti, ai successi, alle onorificenze, pensiamo che sia tutto un po’ fasullo. Dietro immaginiamo che ci sia stato qualche impiccio. E infatti, spesso, è così».