DINO BUZZATI I FUORILEGGE DELLA MONTAGNA
«IN CERTE GIORNATE LIMPIDISSIME di autunno, perfino dai tetti più alti di Venezia si possono distinguere, anche senza bisogno di binocolo, le Dolomiti. Non solo il loro confuso profilo di montagne, misteriosa barriera che chiude il Nord (e al di là che cosa esiste? quali mondi si stenderanno di là della muraglia?). Ma se ne riconosce anche il colore. […] Di che colore? Si può trovare un aggettivo esatto per definire quella tinta così diversa da tutte le altre montagne, che al sottoscritto, ogni volta che ci fa ritorno e la rivede, provoca un trasalimento interno, risollevando ricordi struggenti? No, un aggettivo preciso non esiste. Più che di un colore preciso, si tratta di una essenza, forse di una materia evanescente che dall’alba al tramonto assume i più strani riflessi, grigi, argentei, rosa, gialli, purpurei, viola, azzurri, seppia, eppure è sempre la stessa, così come una faccia umana non cambia anche se la pelle è pallida o bruciata. Avvicinatevi, vi prego, esaminate attentamente questo spettacolo che per noi Italiani è diventato di ordinaria amministrazione, e non ci facciamo più caso, eppure senza ombra di dubbio è una delle cose più belle, potenti e straordinarie di cui questo pianeta disponga. Soltanto per vederlo di sfuggita meriterebbe di venire apposta dall’Australia. E quando ci mostrano in fotografie a colori o in cinerama le rupi dello Zion o del Yosemite Park, in America, celebrate in tutto il mondo, a noi, scusate, viene semplicemente da ridere. […]
POI CI SONO I COLORI DELLE ROCCE. Quelle grigio-chiare dove le pareti sono rotte. Quelle bianche, levigate dai ghiacci dei millenni. Quelle nere e viscide, coperte dai licheni, nelle tenebrose fenditure. Le grigio-scuro, pulite, solidissime, perfette, butterate qua e là da piccoli buchi tondi come orbite, senza neppure un sassolino negli interstizi tanto rigorosa è la verticalità della struttura (delizia massima degli arrampicatori). Le rocce gialle, per lo più malferme e perfide, risparmiate dalla pioggia perché piegate in fuori a strapiombo o riparate da soverchianti tetti; sinistro colore giallo che per i rocciatori è sinonimo di passaggio maledetto. Ci sono poi le rocce rosse, ancora peggio, ancora più marce e impraticabili. E infine i mille straordinari abbellimenti: minuscole caverne, nidi di gnomi forse, scavate negli apicchi; lugubri strisce di antichi stillicidi; cicatrici, di un candore quasi osceno, lasciate da qualche notturno crollo; […] E da tutto questo, per chi guarda dal fondo delle valli, che colore risulta? È bianco? giallo? grigio? madreperla? È color cenere? È riflesso d’argento? È il pallore dei morti? È l’incarnato delle rose? Sono pietre o sono nuvole? Sono vere oppure è un sogno?».