Corriere della Sera - Sette

LA MIA TRIESTE

- CLAUDIO MAGRIS

«COME NELLA PARABOLA di Borges, il vento dell’esistenza strappa qua e là la mappa cartacea che copre la città, e fra gli squarci e le pieghe di quella carta sgualcita appaiono incantevol­i frammenti del mondo, macchie rosse del Carso, il grande richiamo e abbandono del mare, la luce e i riverberi delle rive, l’ala del vento, il tavolo di una birreria dove ci si può allegramen­te infischiar­e del malinteso del mondo. Fra quelle pieghe, fra le orecchie d’asino di quella carta si gode un amabile piacere di vivere, e si ha la sensazione che tutto debba ancora incomincia­re, che la vita debba ancora venire. Il fascino del nontempo triestino, del suo mosaico eterogeneo e sconnesso, è questa promessa sempre rimandata e differita, questo tramonto della vecchia Europa che attende sempre che venga la sua ora. Da questa promessa non mantenuta nasce una sanguigna e picaresca malinconia, la saggezza del vino che avverte che è giunto il momento di andarsene ma invita a indugiare ancora un poco, un’intensa poesia dell’amicizia. Quel luogo mitico della fantasia che fa intraveder­e la felicità per smentirla subito, è un grembo materno da cui si fugge ma che ci si porta dietro, un cordone ombelicale riluttante a lasciarsi recidere, che induce il triestino ad amare la città da lontano e a denigrarla da vicino, a parlarne continuame­nte male e a parlarne di continuo».

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