LA MIA TRIESTE
«COME NELLA PARABOLA di Borges, il vento dell’esistenza strappa qua e là la mappa cartacea che copre la città, e fra gli squarci e le pieghe di quella carta sgualcita appaiono incantevoli frammenti del mondo, macchie rosse del Carso, il grande richiamo e abbandono del mare, la luce e i riverberi delle rive, l’ala del vento, il tavolo di una birreria dove ci si può allegramente infischiare del malinteso del mondo. Fra quelle pieghe, fra le orecchie d’asino di quella carta si gode un amabile piacere di vivere, e si ha la sensazione che tutto debba ancora incominciare, che la vita debba ancora venire. Il fascino del nontempo triestino, del suo mosaico eterogeneo e sconnesso, è questa promessa sempre rimandata e differita, questo tramonto della vecchia Europa che attende sempre che venga la sua ora. Da questa promessa non mantenuta nasce una sanguigna e picaresca malinconia, la saggezza del vino che avverte che è giunto il momento di andarsene ma invita a indugiare ancora un poco, un’intensa poesia dell’amicizia. Quel luogo mitico della fantasia che fa intravedere la felicità per smentirla subito, è un grembo materno da cui si fugge ma che ci si porta dietro, un cordone ombelicale riluttante a lasciarsi recidere, che induce il triestino ad amare la città da lontano e a denigrarla da vicino, a parlarne continuamente male e a parlarne di continuo».