Questo non lo scriva Inter vista classica
mi faceva cantare le canzoni prima di dare il via libera definitivo. Perché aveva capito che scrivevo parlando di me e solo se mi venivano bene anche in voce potevano funzionare. Per il resto era un uomo che parlava pochissimo di sé. Una cosa sola riuscii a estorcergli: a suonare la chitarra glielo aveva insegnato un uomo molto semplice.» In fondo, Battisti è stato uno dei pochi inimitabili. «Però molti si sono ispirati a lui. Vasco Rossi, per esempio, ammira molto il Battisti mio. E infatti è uno dei pochi che resiste. Sa perché? Perché è credibile. Non basta predicare il permissivismo e la libertà se poi non assomigli al tuo personaggio. La verità è tutto. La verità colpisce l’immaginario e rimane». Altri, come Fossati, hanno deciso di rinunciare. «È che questo mondo ti stanca perché cambia velocemente. Oggi funziona così: si prende un ragazzo, si decide che quello è un artista senza che lo sia davvero, oppure prima che lo diventi. Lo si spreme e poi si passa a un altro. Spesso sono le radio stesse che producono dischi, dunque poi, ovviamente, faranno ascoltare solo quelli. Io ho centinaia di canzoni ma è difficile poi dare vita a un progetto vero. Ecco perché la mia creatività ha trovato altre strade». Cioè? «Vent’anni fa ebbi l’idea di creare delle Little Italy nel mondo, isole dove vendere i prodotti italiani, moda compresa. Farinetti è arrivato molto dopo e comunque la mia idea era più complessa. Oggi vorrei aiutare i migranti: con progetti di produzione nelle loro terre sotto la guida dell’Unione Europea, soprattutto coltivazioni biologiche. Ho idee e ai politici dico: sfruttatemi!» Mogol, però non mi pare che lei si possa lamentare. Fa decine di cose! «Certo, dalla nazionale cantanti che ho fondato fino al
«Oggi il sistema è così: si prende un ragazzo, si decide che è un artista senza che lo sia davvero oppure prima che lo diventi. Lo si spreme e poi si passa a un altro»
nella musica non è solo tecnica o voce. È la capacità di emozionare davvero. Pochi ci riescono. E sì, ci vuole anche il nome giusto». Un nome, Mogol, che oggi compare anche sulla sua carta d’identità. «Sì, ci sono riuscito. All’epoca era normale trovarsi un nome d’arte, ma a me Mogol non piaceva: temevo che lo associassero a qualcosa di orientale, in un periodo che invece era sedotto dall’Occidente, dall’America.» Quando ha avuto la sensazione di essere diventato davvero Mogol? «Ce l’ho ogni volta che faccio una serata e faccio scorrere alle mie spalle il testo di una mia canzone. Mi ritrovo di colpo duemila persone che cantano. Le mie canzoni le cantano tutti: giovani, vecchi. Poi, certo, tutti pensano a Battisti ma ogni volta che intonate Una lacrima sul viso
state cantando Mogol. Quando accennate a Oro di Mango, state cantando Mogol». E per capire bene le dimensioni (anche economiche) di questo successo bisogna venire qui, vicino a Amelia, nel suo piccolo regno: il centro europeo di Toscolano, Cet (alta scuola di formazione musicale), è anche un teatro, una serie di residenze per artisti e ospiti paganti, due piscine, palestra, un maneggio, un teatro e persino una chiesa che l’autore ha fatto riprodurre secondo gli schemi duecenteschi, decorazioni in foglia d’oro comprese. Ed è anche la dimora che il poeta divide con la giovane moglie Daniela Gimmelli. La Perché seconda prima consorte,c’è stata vero?Serenella pagne, e poise nonha avuto sbaglio. due com«Due?! Eh, ne ho avute di campagne. Pardon, di compagne». “Campagne/compagne” è un lapsus molto mogoliano. Come “la mia spesa/ la mia sposa”. «Con Il nastro rosa, Una donna per amico è una delle canzoni più vere che io abbia mai scritto. E per questo non ne parlo». Ma erano tutte vere le sue canzoni: lei dice che scriveva parlando di sé. «Scrissi Una donna per amico per Adriana. Era un’amica per davvero, una che al bar, ogni giorno, continuava a supplicarmi di scrivere una canzone per lei. Un giorno la accontentai. Tutto qui. Il vero segreto di questo successo è la semplicità. Delle parole, delle situazioni. Ma anche dell’amore, della vita, della morte.» Quella semplicità che le hanno rimproverato i critici più intransigenti? «Tutto è cominciato quando hanno preso a demolire la cultura popolare. Mi dica: qualcuno oggi fa musica dodecafonica? No e questo è perché non trasmette emozioni. Solo quello che emoziona resta. Ancora: tutti oggi quando leggiamo Dante o Leopardi ne restiamo folgorati. Ma Foscolo, che emozioni ti dà? Era un poeta storico e importante, certo. Ma quello che resta, resta perché è cosa viva. L’accademia ha cominciato a fare a pezzi la cultura popolare perché è un patrimonio che non ha mai voluto conoscere a fondo.» Le femministe si infuriarono per “motocicletta dieci HP/ tutta cromata/ è tua se dici sì” ( Il tempo di morire).
«Si infuriarono stupidamente. Io sono stato il primo a raccontare, ancora una volta con semplicità, il desiderio maschile. Anche quello dei giovanissimi. Un’estate, a Rimini, mio padre andò a farsi curare una nefrite e mi portò con sé. Avevo quattro anni ma ricordo bene la figlia della pensionante, una rossa con due seni magnifici. Ecco, ho raccontato tutto ciò. La vita, per farla breve.» Come “la paura di esser preso per mano” ( Pensieri e parole). «Quella era la Milano della mia infanzia, vicino a Lambrate. C’era un campo di grano, appunto, dove andavamo noi ragazzini. Da lontano si vedeva la nostra ferrovia. E c’era quell’amore profano che tutti, in un modo o nell’altro abbiamo provato. Ma io ho avuto una infanzia proletaria: papà era impiegato alla Ricordi. Io leggevo Salgari, Steinbeck e i poeti americani come Edgar Lee Masters. Tutto era severo, rigoroso. Però molto umano.» È vero che all’inizio la musica di Lucio Battisti non le piaceva? «Glielo dissi e lui mi spiazzò rispondendomi: sono d’accordo. Dopo poco tempo scrissi per lui 29 settembre. Gli ho voluto molto bene. Anche quando non ci siamo sentiti più. E lui mi diede la prova massima di fiducia:
«Lucio mi faceva cantare le canzoni prima di dare il via libera. Aveva capito che scrivevo parlando di me e solo se mi venivano bene anche in voce potevano funzionare»