PASSAPAROLA
Ellroy, l’uomo che per scrivere passò sul cadavere della madre
CON IL TITOLO HOLLYWOOD TRE-
MA, Bompiani riunisce due precedenti pubblicazioni di James Ellroy ( Corpi
da reato e Il dubbio letale). Di solito queste operazioni editoriali sanno di posticcio, stavolta, invece, l’Ellroy che ne viene fuori non è la semplice somma delle parti. Nel libro c’è l’Ellroy faceto, l’inventore di Hush-Hush, la rivista che fa il verso alle vere riviste di gossip dell’epoca d’oro hollywoodiana. La caratteristica stilistica di Hush-Hush è l’allitterazione, il vezzo delle frasi fatte di parole con la stessa lettera iniziale: «Ben borborigmò bicarbonato di soda. Bolle di bava gli si librarono dalle labbra». Ma accanto a quello faceto c’è pure l’Ellroy serio, quello che, sbattendosene delle allitterazioni, va al punto: «Nel giugno del 1958 mia madre morì per mano di un assassino che sarebbe rimasto impunito». Allora James aveva dieci anni. Nei suoi romanzi Ellroy ha dato la caccia all’assassino senza volto, ma forse la dava a sua madre (che non aveva amato abbastanza quando era viva), o a se stesso. Morta Geneva Hilliker Ellroy, il figlio sbandò di brutto. Alcol, droghe e altro: «Rubavo nei negozi, mi insinuavo nelle case borghesi e annusavo le mutandine delle signore». Finché non scoprì che la sua dipendenza era scrivere romanzi polizieschi. La meta finale era un capolavoro, «I miei luoghi oscuri», il suo «Delitto e castigo», o, più precisamente, il racconto del delitto senza castigo di sua madre. James Ellroy è l’americano più vicino a Dostoevskij mai esistito. Tutto nacque da una foto scattata da un reporter che immortala Jamesiello cinque minuti dopo che gli avevano detto dell’omicidio. La foto fatale Ellroy la ricevette che era già adulto.
La incorniciò e la guardò per anni. Più che una foto fu un set analitico. Ellroy interpretò quel suo ritratto come si fa con gli incubi: «Il mio disagio, persino in quel momento, ha un che di ambiguo: mentre i piedipiatti fanno atto di riverenza a quello che per loro è il cordoglio di un giovane orfano, io sto già rimuginando sui vantaggi che potrò trarne».
SOLO IL TRUMAN CAPOTE di A sangue freddo ha raggiunto una consapevolezza simile a quella di Ellroy riguardo all’incensato (insensato?) mestiere di raccontare i fatti propri e altrui. Si dice che uno scrittore pur di narrare una storia sia disposto a passare perfino sul cadavere della madre. Sarebbe una metafora, Ellroy l’ha presa alla lettera. Le parabole professionali di Capote ed Ellroy si somigliano. Entrambi, dopo i capolavori, si sono smarriti in un pulviscolo di parole (spesso magnifiche) fatto di abbozzi di romanzi, di prove d’autore. Entrambi hanno coltivato il sogno dell’opera definitiva sul mondo: inseguendo (Capote) una “Ricerca del tempo perduto” del bel mondo newyorkese, ma la spirale dei pettegolezzi l’ha risucchiato; inseguendo (Ellroy) una Divina Commedia hollywoodiana dove nei gironi infernali ci sia posto anche per un James Dean detto «il portacenere umano» per le sue predilette pratiche masochistiche (implorava i partner di spegnergli le sigarette sul corpo). Anche le parabole esistenziali si toccano. Capote annegò nel gorgo dei Martini cocktail con, al posto dell’oliva d’ordinanza, l’intero campionario di barbiturici disponibile sul mercato farmaceutico. Ellroy si è perso dentro la malattia letteraria sniffando allitterazioni all’infinito come i giornalisti inventati di Hush-Hush. Così l’assassino di sua madre, «un bianco di carnagione scura o un messicano», sulla quarantina, altezza 1,75/1,80, è rimasto un caso insoluto.