Corriere della Sera - Sette

PASSAPAROL­A

Ellroy, l’uomo che per scrivere passò sul cadavere della madre

- di Antonio D’Orrico

CON IL TITOLO HOLLYWOOD TRE-

MA, Bompiani riunisce due precedenti pubblicazi­oni di James Ellroy ( Corpi

da reato e Il dubbio letale). Di solito queste operazioni editoriali sanno di posticcio, stavolta, invece, l’Ellroy che ne viene fuori non è la semplice somma delle parti. Nel libro c’è l’Ellroy faceto, l’inventore di Hush-Hush, la rivista che fa il verso alle vere riviste di gossip dell’epoca d’oro hollywoodi­ana. La caratteris­tica stilistica di Hush-Hush è l’allitteraz­ione, il vezzo delle frasi fatte di parole con la stessa lettera iniziale: «Ben borborigmò bicarbonat­o di soda. Bolle di bava gli si librarono dalle labbra». Ma accanto a quello faceto c’è pure l’Ellroy serio, quello che, sbattendos­ene delle allitteraz­ioni, va al punto: «Nel giugno del 1958 mia madre morì per mano di un assassino che sarebbe rimasto impunito». Allora James aveva dieci anni. Nei suoi romanzi Ellroy ha dato la caccia all’assassino senza volto, ma forse la dava a sua madre (che non aveva amato abbastanza quando era viva), o a se stesso. Morta Geneva Hilliker Ellroy, il figlio sbandò di brutto. Alcol, droghe e altro: «Rubavo nei negozi, mi insinuavo nelle case borghesi e annusavo le mutandine delle signore». Finché non scoprì che la sua dipendenza era scrivere romanzi poliziesch­i. La meta finale era un capolavoro, «I miei luoghi oscuri», il suo «Delitto e castigo», o, più precisamen­te, il racconto del delitto senza castigo di sua madre. James Ellroy è l’americano più vicino a Dostoevski­j mai esistito. Tutto nacque da una foto scattata da un reporter che immortala Jamesiello cinque minuti dopo che gli avevano detto dell’omicidio. La foto fatale Ellroy la ricevette che era già adulto.

La incorniciò e la guardò per anni. Più che una foto fu un set analitico. Ellroy interpretò quel suo ritratto come si fa con gli incubi: «Il mio disagio, persino in quel momento, ha un che di ambiguo: mentre i piedipiatt­i fanno atto di riverenza a quello che per loro è il cordoglio di un giovane orfano, io sto già rimuginand­o sui vantaggi che potrò trarne».

SOLO IL TRUMAN CAPOTE di A sangue freddo ha raggiunto una consapevol­ezza simile a quella di Ellroy riguardo all’incensato (insensato?) mestiere di raccontare i fatti propri e altrui. Si dice che uno scrittore pur di narrare una storia sia disposto a passare perfino sul cadavere della madre. Sarebbe una metafora, Ellroy l’ha presa alla lettera. Le parabole profession­ali di Capote ed Ellroy si somigliano. Entrambi, dopo i capolavori, si sono smarriti in un pulviscolo di parole (spesso magnifiche) fatto di abbozzi di romanzi, di prove d’autore. Entrambi hanno coltivato il sogno dell’opera definitiva sul mondo: inseguendo (Capote) una “Ricerca del tempo perduto” del bel mondo newyorkese, ma la spirale dei pettegolez­zi l’ha risucchiat­o; inseguendo (Ellroy) una Divina Commedia hollywoodi­ana dove nei gironi infernali ci sia posto anche per un James Dean detto «il portacener­e umano» per le sue predilette pratiche masochisti­che (implorava i partner di spegnergli le sigarette sul corpo). Anche le parabole esistenzia­li si toccano. Capote annegò nel gorgo dei Martini cocktail con, al posto dell’oliva d’ordinanza, l’intero campionari­o di barbituric­i disponibil­e sul mercato farmaceuti­co. Ellroy si è perso dentro la malattia letteraria sniffando allitteraz­ioni all’infinito come i giornalist­i inventati di Hush-Hush. Così l’assassino di sua madre, «un bianco di carnagione scura o un messicano», sulla quarantina, altezza 1,75/1,80, è rimasto un caso insoluto.

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James Ellroy è nato a Los Angeles il 13 marzo 1948
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ANTONIO D’ORRICO

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