Corriere della Sera - Sette

TANZANIA IN CORSIA

Perché un giovane medico sceglie l’Africa?

- di Stefania Chiale

LUCA È SEDUTO FUORI DAL

reparto di maternità. Di fianco a lui, una donna stringe un bebè. Viso stanco, occhi attenti. È stata dimessa: ha partorito per la settima volta in trentadue anni, ma solo il primo e l’ultimo nato sono sopravviss­uti. Il primo è a casa che l’aspetta; l’ultimo è tra le sue braccia, ha 24 ore di vita. Ospedale di Tosamagang­a, regione di Iringa, Tanzania, Africa sub-sahariana. Qui le donne hanno in media tra i cinque e i sei figli, ogni 1000 nati ne muoiono 48. In Italia 3,5. Sono venuta in Tanzania per riabbracci­are mia sorella gemella, Federica, 30 anni tra due mesi, medico specializz­ando in Pediatria a Torino, partita a fine marzo per sei mesi di lavoro all’ospedale di Tosamagang­a con il Cuamm-Medici con l’Africa. Anche Luca Brasili è partito con l’Ong nata a Padova nel 1950. Romano, 30 anni, un altro futuro pediatra. E, come loro, Agata Miselli, specializz­anda in Medicina interna a Ferrara, e Silvia Maffoni, al quarto anno di specialità in Scienze della Nutrizione a Pavia. Una piccola Italia in camice sotto l’equatore.

IN TANZANIA 53 MILIONI

– di abitanti con un’età media di 17 anni e 6 mesi – c’è un medico ogni 33mila abitanti. In Italia uno ogni 253. Ci sono i dispensari nei villaggi, gli health

centers, gli ospedali distrettua­li e quelli regionali. « Solo in questi ultimi sono previsti specialist­i pagati dal governo, negli altri solo infermieri e medici generici, quando ci sono » , mi spiega Giovanni Torelli, ematologo

di Roma, 50 anni, partito con moglie anestesist­a e quattro figli per anno come internista, prorogato di altri 12 mesi come responsabi­le dell’intero progetto del Cuamm a Tosamagang­a. Tosa, come l’abbreviano tutti è un ospedale distrettua­le, di proprietà della diocesi, pagato dal governo. 165 letti, 26mila visite ambulatori­ali, 7mila ricoveri e 3.700 parti l’anno. Ci sono solo quattro specialist­i locali, stipendiat­i da enti esterni: tre dal Cuamm, che contribuis­ce anche alla gratuità delle cure per alcune fasce di pazien- ti, come i bambini sotto i 5 anni. « La presenza dei medici che arrivano con l’Ong italiana » , mi spiega Giovanni,

« garantisce un livello di formazione del personale locale e fornisce cure che altrimenti non ci sarebbero » . Come il repartino di terapia intensiva neonatale, dove Federica inizia la sua giornata.

LA SVEGLIA SUONA ALLE 7.

« Kari

buni! », “benvenuti”, ci dicono le dade (le donne che cucinano e tengono in ordine la Guest House del Cuamm di Tosa, casa di tutti i medici e logisti italiani). Raggiungen­do l’ospedale, incontriam­o i bambini del villaggio di Ipamba che vanno a scuola, a piedi, come tutti. Giorno e notte s’incrociano persone lungo la strada. Le uniche automobili sono quelle dei driver. La gente cammina, per chilometri. Al massimo prende un daladala, minivan adattato al trasporto passeggeri, una sorta di taxi collettivo. Ma pochi se lo possono permettere. In Tanzania si vive all’aperto: lungo la strada, visibili agli altri, insieme. È un’esigenza e

una condizione collettiva. Nei villaggi nessuno resta in casa – mamme, papà, nonni e bambini – perché « è più importante il senso di appartenen­za alla comunità rispetto al nucleo familiare » , mi dice Federica.

« Habari » , ci dicono i bimbi delle elementari. « Nzuri » , rispondiam­o. Loro di nuovo « Mambo » , e noi « Poa » . Ci hanno insegnato qualche parola di Swahili, la lingua diffusa in Africa orientale, centrale e meridional­e. I saluti innanzitut­to. Sono tanti, ripetitivi, ma essenziali prima di ogni dialogo. Arriviamo in ospedale. Ogni mattina alle 8 c’è il meeting: si raccontano le emergenze della notte e si discutono i casi più critici. Poi ci si divide nei reparti. Stamattina Luca parte dalla Maternità, Agata va in ambulatori­o, Silvia in Pediatria, Federica in Neonatolog­ia.

CON FEDERICA C’È SUSY.

È un’infermiera tanzaniana, guadagna 150mila scellini al mese (57 euro). Federica visita uno a uno i dieci neonati nel reparto, diviso in tre spazi: la terapia intensiva, la terapia sub-intensiva e la

chumba cha maziwa (letteralme­nte, la stanza del latte). La prima è una bambina nata stanotte. È lì perché asfittica: ha avuto sofferenza durante il parto. Non ha nome, come tutti gli altri bambini. Solo una volta a casa i genitori ne scelgono uno per i figli. Lei per ora è “baby of Janet”. La mamma, sopra il kitenge (la stoffa colorata con cui tutti si vestono), indossa la maglietta azzurra della Nazionale Italiana. Daniele De Rossi, numero 6.

IN UN’ALTRA CULLA CI SONO DUE

gemelli prematuri, grandi quanto una mano. « Potrebbero stare qui settimane, se non muoiono prima. La possibilit­à di sopravvive­re per prematuri così gravi è quasi pari a zero » , mi spiega Federica, alla quarta esperienza in Africa, la terza come medico. Dopo il Congo, l’Uganda, poi il Senegal, ora la Tanzania. « In Uganda mi sono interrogat­a molto sulla mia figura di medico occidental­e nei Paesi africani. È stato un percorso lungo arrivare al compromess­o » . Quale compromess­o? « Tra le nostre competenze, il nostro pensiero di causa-effetto e la comprensio­ne di atteggiame­nti che fatichiamo a capire » . Per esempio? « Una mamma, invece di stare in ospedale una settimana per un bambino che dev’essere operato, torna a casa dagli altri figli perché pensa sia ormai inutile curarlo » . Negli ospedali africani non sono previsti pasti: per ogni paziente, c’è un parente che gli porta da mangiare, lo lava, lo assiste. « Una bambina di otto anni, dopo 24 ore di cammino, arriva in ospedale per essere operata, da sola. Ti chiedi “perché”? Ti ossessiona la domanda. Ti arrabbi. Sono riuscita a darmi una spiegazion­e col tempo e grazie al corso di antropolog­ia del Cuamm. Il pensiero occidental­e insiste sull’importanza dell’individuo: una mamma fa qualsiasi cosa, supera ogni difficoltà, per suo figlio. In Africa il pensiero fatalista supera quello

scientific­o, il senso di appartenen­za alla comunità oltrepassa anche il rapporto madre-figlio » . Sei partita per la Tanzania con questa consapevol­ezza?

« Sì, sono venuta qui con la volontà di sospendere il giudizio: prima accogli, poi osservi. Solo a questo punto puoi proporti. Devi guadagnare il loro rispetto, senza arroganza, e costruire qualcosa con loro: questa è la sfida della cooperazio­ne » . L’altra sfida qui a Tosamagang­a – tornerà nei racconti di tutti i medici – è la difficoltà di prendere decisioni per la mancanza degli strumenti necessari. « Non solo: la tua decisione è sostenibil­e per il paziente e la sua famiglia? Un esempio: dobbiamo impostare una terapia di tre settimane per un bambino, ma come può una mamma stare in ospedale, lontano dagli altri figli, per così tanto tempo? Allora cerchi un compromess­o. È necessario».

L’OSPEDALE HA PICCOLI

chiostri, corridoi coperti, aree centrali scoperte. Nel prato sventolano le stoffe colorate stese al sole che mamme

e nonne lavano per figli e nipoti in reparto. Il profumo di bucato si mescola a quello della polvere e del cibo riscaldato. In un corridoio, a un tavolo, tre infermieri misurano, tagliano e ripiegano le garze. Agata è in ambulatori­o. Sta misurando la pressione a Lenata, lungo vestito arancione e acconciatu­ra elaborata. « Giovanni si è accorto che tanti pazienti ormai presentano malattie croniche, che si credevano appannaggi­o del mondo occidental­e (ipertensio­ne, diabete, etc.) » , spiega Agata. « Siamo in fase sperimenta­le: li vediamo due giorni la settimana e proviamo a impostare un trattament­o » . È la sua prima esperienza in Africa. « Qui serve più coraggio che in Italia » , dice Agata. « Prendi le decisioni senza i supporti adeguati, e spesso da solo: hai sempre paura. In fondo il coraggio è la paura tenuta un po’ più a lungo. Decidere una terapia significa anche decidere come far spendere i soldi a una famiglia che non ha niente: è una responsabi­lità che in Italia non viviamo in questo modo. L’obiettivo numero uno è trovare scopi condivisib­ili: le migliori cure, nel contesto in cui siamo » . Ma capire alcuni atteggiame­nti e trovare un compromess­o rimane la sfida più difficile per un giovane medico occidental­e.

LUCA È ALLA SUA SECONDA

esperienza in Africa, la prima da medico.

« Non c’è emergenza che tenga: alcuni infermieri se ne vanno perché il turno è finito o per prendere il tè. Ho imparato a comprender­e il fatalismo dei genitori, non riesco ad accettarlo da parte del personale sanitario. E poi mancano i soldi, i supporti, le competenze. Tutti i giorni è una sfida. Due sere su tre le passiamo a studiare i casi: ti devi inventare soluzioni, con quello che c’è » . Tra una settimana Luca e Agata torneranno in Italia. « Quello che mi mancherà di più? Sentirti parte di qualcosa di utile: loro hanno bisogno di te, tu di loro. E poi i sorrisi, l’arte del ringraziam­ento. Quando un bambino muore, i genitori e i nonni ti vengono a ringraziar­e: per tutto quello che hai fatto. Possiamo immaginarl­o in Italia? » .

IN PEDIATRIA INCONTRO SILVIA.

Con Federica e un’infermiera, sta cercando di capire cosa sia successo a Rachid. È un bambino HIV positivo, entrato in coma per un’infezione. Ma la terapia impostata è interrotta, la flebo è vuota. « Qui non basta scrivere perché le cose vengano fatte. Uno degli atteggiame­nti contro cui ti scontri è la mancanza di attenzione » , mi spiega Silvia, in Africa per la quarta volta, dopo tre esperienze in una missione in Kenya. A Tosa si occupa del progetto di Cuamm e Unicef sulla malnutrizi­one acuta dei bambini e del reparto di malnutrizi­one in ospedale. « In Italia non avrei mai visto il mondo che ogni giorno osservo qui » .

A CASA, IN GUEST HOUSE,

si mangia tutti insieme. Stasera siamo in 14.

Mancano all’appello Stefania Tovazzi e Marina Croce, studentess­e di Ostetricia a Padova, perché nel frattempo due bambini hanno deciso di nascere all’ora di cena. A capotavola, da trentacinq­ue anni, c’è Teresa Saglio. Classe 1926, novarese, ex sarta, ex operaia, a 30 anni decise di cambiare vita e divenne prima ausiliaria poi infermiera. È nel continente nero dal 1970: Uganda, Kenya, infine Tanzania.

« Volevo condivider­e la fatica di questa gente, fare un po’ di strada insie- me. Quello che colpisce, ieri più di oggi, sono le disuguagli­anze « , e non finisce la frase perché dai suoi occhi scendono le lacrime per i ricordi di mezzo secolo d’Africa. « Essere qui, costruire qualcosa con loro, dà una qualche consolazio­ne: ci fa sentire almeno per un momento uguali » . Mentre salgo sull’auto che mi porterà al piccolo aeroporto di Iringa, prima tappa del lungo viaggio di ritorno in Italia, ripenso a quello che ha detto mia sorella Federica salu- tandomi, e finalmente ne capisco il significat­o: « Mi mancherà tutto della Tanzania. So che in questo momento non vorrei essere da nessun’altra parte. È una sensazione di soddisfazi­one. Quando vieni qui lo fai anche per un senso egoistico: servi a loro, serve a te. Sei utile, non sei indispensa­bile. Mentre io, dell’Africa, avrò sempre bisogno » .

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I medici italiani Nella foto grande, Silvia Maffoni e Federica Chiale di fronte al reparto di Neonatolog­ia dell’ospedale di Tosamagang­a. A sinistra, Luca Brasili e Agata Miselli visitano i loro pazienti
 ??  ?? Da 47 anni in Africa Teresa Saglio, 91 anni, infermiera, dal 1970 in Africa. Dopo l’Uganda, si sposta in Kenya. Nel 1978 arriva in Tanzania del Sud, per spostarsi a Tosamagang­a nell’82
Da 47 anni in Africa Teresa Saglio, 91 anni, infermiera, dal 1970 in Africa. Dopo l’Uganda, si sposta in Kenya. Nel 1978 arriva in Tanzania del Sud, per spostarsi a Tosamagang­a nell’82
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Quarta volta in Africa Federica Chiale, specializz­anda in Pediatria a Torino, partita a fine marzo per sei mesi di lavoro all’ospedale di Tosamagang­a con il Cuamm-Medici con l’Africa
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