OUTSIDE THE BOX
Lo sport nazionale è quello che consente di conversare con chiunque, sempre e dovunque. Gli americani ne hanno quattro (football, hockey, basket, baseball). Noi abbiamo il calcio
Il calcio è un romanzo popolare. Ecco perché ci piace (nonostante tutto)
Vogliamo comprare i biglietti per la partita come compriamo i biglietti del cinema. All’ultimo momento, senza formalità
GLI ESSERI UMANI SONO ABITUDINARI. Ci adattiamo a quasi tutto, non dimentichiamo quasi niente, cerchiamo consolazione nella ripetizione. Anche così si spiega il successo di molti sport: si intrufolano nelle consuetudini, producono ricordi, creano tradizioni, inducono dipendenza. Negli USA l’anno solare è scandito dal football (autunno), dall’hockey (inverno), dal basket (primavera) e dal baseball (estate). The crack of the bat – il rumore della mazza che colpisce la palla – è un evocatore: fa venir voglia di serate lunghe, birra fredda e piedi nudi. In Italia i meccanismi sono simili, cambiano solo gli sport e i periodi. Lo sport nazionale è uno solo – il calcio – e occupa tre stagioni su quattro. Non me ne vogliano gli appassionati di basket, atletica, nuoto, ciclismo, motociclismo (sport fascinosi e in ascesa). Ma lo sport nazionale è quello che consente di conversare con chiunque, sempre e dovunque. Per lo straniero che arriva, un lasciapassare. Per i residenti, un tranquillante. La serie A che riprende è, prima di tutto, un segno di normalità. Quella che in Italia manca, spesso.
VI SEMBRERÀ UNO STRANO MODO di introdurre la copertina di questa settimana. Ma è l’unico modo, a mio giudizio, di spiegare l’inossidabile fascino del calcio, nazionale ed europeo. Ad attirarci non è la spesa grottesca del Paris Saint-Germain (Psg). Non è l’efficienza della Premier League (l’italiano Conte, il francese Wenger e il portoghese Mourinho sono i migliori spot antiBrexit). Non è l’avanzata della Bundesliga o la tenuta della Liga di Cristiano Ronaldo. Non è la prodigalità del Milan, la solidità della Juventus, il desiderio dell’Inter, la costanza del Napoli, la grinta del Torino, il sogno della Spal, la voglia di Roma e Lazio (l’intervista a Ciro Immobile alle pagine 62-65). Ad attirarci è l’idea che, come tutti gli anni, si ricomincia. È la consapevolezza che il romanzo popolare riparte, con i suoi rituali e i suoi colpi di scena, i suoi protagonisti e le sue comparse. Solo così si spiega il richiamo di uno sport che ha dato, spesso, pessima prova di sé. Non parliamo soltanto di corruzione, ipocrisia e ingordigia. Parliamo degli stadi semivuoti, solo perché non siamo capaci di garantire la sicurezza di chi va a godersi uno spettacolo. A proposito: la Tessera del Tifoso è una penosa ammissione d’impotenza. Vogliamo comprarci i biglietti per la partita come compriamo i biglietti del cinema: all’ultimo momento, senza formalità.
NOI CHE AMIAMO IL CALCIO, queste cose, le sappiamo. Ma subito dopo Ferragosto – rito nel rito – le rimuoviamo. Abbiamo bisogno del nostro mantra rotondo, della luce del televisore nella stanza scura, dell’enfasi dei telecronisti (l’“intervista disegnata” a Pierluigi Pardo a pagina 110). Abbiamo bisogno delle attese del giorno prima, delle discussioni del giorno dopo, dei messaggi WhatsApp per sfottere o per consolare. Abbiamo bisogno di disegnare formazioni mentali (dove troviamo un esterno migliore di Perisic?). Abbiamo bisogno di parlarne coi figli giovani o col papà anziano. Perché il calcio è l’album dei ricordi e l’albume di tante famiglie italiane, un ingrediente che le tiene insieme. Non ci annoieremo, quest’anno. Per i motivi che spiega con competenza Tommaso Pellizzari nella storia di copertina (pagine 16-22). E perché mescoleremo, ancora una volta, abitudini e aspettative, fino a ottenere ciò che vogliamo: sentirci parte di qualcosa che va avanti. Al di là delle differenze sociali, al di là delle diversità culturali, al di là delle distanze geografiche. Grazie a un pallone, pensate un po’.