CUCINA DI REDAZIONE
Il tavolo dei “neristi”, la pappa al pomodoro di Montanelli, i dissapori fra premi Nobel: una giovane giornalista di 7 visita il ristorante che ha fatto la storia del Corriere
Quando i giornalisti pranzavano insieme
RACCONTANO CHE GAETANO AFELTRA, colonna del Corriere della Sera dall’immediato dopoguerra e tessera numero 10 dell’Ordine dei Giornalisti di Milano (Indro Montanelli aveva l’8), ripetesse spesso che un giornalista deve essere orfano e scapolo, e che un direttore deve vivere in albergo. Lui infatti alloggiava d’abitudine al Principe di Savoia, e non a casa con moglie e figlia. Priorità assoluta, cioè, andava data al giornale e alla sua redazione, e non a cure quotidiane come reperire una camicia stirata. Per decenni questo spirito – un impasto di lavoro intellettuale, abnegazione, randagismo nobile, molto maschile e un po’ bohémien – è stato l’unico modo di vivere la professione di giornalista: pochissimo a casa, molto in redazione, spesso in ristoranti di cui si era habitué. Ogni giornale ha (aveva) i suoi: il Rodrigo di Bologna accoglieva i cronisti del Resto del Carlino, al torinese Giusti cenava la nera della Stampa, nella londinese Fleet Street, che fu per decenni “la via dei giornali”, i risto-
ranti ospitavano “wet lunches”, cioè pranzi bagnati (di vino) di quattro ore; il Corriere aveva il Rigolo, in largo Treves, a 200 metri da via Solferino 28. Già Rigoletto, lo aprirono nel 1958 i fratelli toscani Sivaldo e Silvano Simoncini con le mogli Wilma e Franca (Wilma è tuttora al timone col figlio Renato, che rientrando da scuola pranzava al tavolo con Salvatore Quasimodo e gli ripeteva le poesie a memoria). I ristoratori milanesi di quegli anni erano, quasi tutti, emigranti toscani; lo era anche uno dei primi clienti illustri del Rigolo, Indro Montanelli, che al suo tavolo fisso chiedeva pappa al pomodoro e un bicchiere di vino rosso (e quando il prefetto proibì gli alcolici per una trasferta di hooligans, durante Italia 90, ne sfilò una bottiglia dagli scaffali e intimò: «Versatemela, e facciamo che l’ho portata da casa»). Lasciò il giornale (e il Rigolo, troppo vicino al Corriere) nel ’73; ci tornò dopo la chiusura della sua Voce nel ’95, convinto, ancora in un pranzo al Rigolo, dall’allora direttore editoriale Paolo Mieli, che lasciando il ristorante, raccontano, si rivolse alla sala: «Oggi festeggiamo una buona notizia». Per tutti gli Anni 60, 70 e 80, le sale del ristorante furono una sorta di succursale della redazione: i “neristi” del turno serale, nel tavolo loro riservato al fondo, avevano fatto sistemare una radio sintonizzata sulle frequenze di polizia, come quelle che approdavano, di contrabbando, in ogni redazione. Spesso qualcuno si sedeva, ordinava, sentiva dire qualcosa e schizzava via verso una notizia. E poi tornavano, «e alle 2 di notte li cacciavo spegnendo le luci», ride la padrona di casa Wilma.
PIÙ ALATI ERANO FORSE i discorsi dei tavoli all’entrata: a destra c’era una tavolata quasi fissa composta da Enzo Bettiza, Alfredo Pieroni (già allontanatosi da Oriana Fallaci, di cui fu il primo amore), Eugenio Montale che – raccontano al ristorante – detestava Quasimodo, anche lui habitué e seduto poco più in là. E dal critico cinematografico Franco Berutti, i cui diari (raccolti dall’amico orafo Angelo Mereu, memoria della Brera anni 70 e autore di quasi tutte le fotografie incorniciate in queste pagine) sono una miniera di aneddotica: dalle battutine sul grande Orio Vergani, «detto Olio per la scrittura liscia ma Ovvio quando lo leggevi», a quando un illustre capocronista aveva mandato un inviato su un disastro, e informato al telefono del ristorante che le vittime erano meno del previsto si lamentò «e mo’ cosa faccio, aggio fatto già nu bellissi
mo titolo... ». Tutti i loro ritratti – e quelli di Dino Buzzati, Ettore Mo, Fernanda Pivano, Alberto Cavallari, Camilla Cederna, Alfio Russo, Carlo Castellaneta e decine di altri che hanno fatto la storia del giornale e una mitologia della professione che ha attirato molti di noi, generazioni dopo – sono appesi sulle pareti del Rigolo. Ai giornalisti millennial, attaccati al computer dieci ore al giorno, il loro sembra un mestiere che non esiste più: come il menu di un ristorante, con gli ingredienti di sempre ma ricette tutte cambiate. Non quello del Rigolo, però.