Corriere della Sera - Sette

SOGNO DI UNA NOTTE DI INIZIO AUTUNNO

(non vogliamo il consenso ma l’unanimità)

- di Luca Bottura

Noi autori tv siamo come i politici (non vogliamo il consenso ma l’unanimità)

Non lo volevo fare, questo mestiere: come tutta la mia generazion­e di colleghi, nati attori, architetti, giornalist­i. Ma i giovani autori, molto più competenti e preparati, devono saperlo: una volta entrati, non si vuole più uscire. Prigionier­i consenzien­ti di un incubo dorato

IL NOTO INTELLETTU­ALE DEL ’900 Gianfranco Funari sosteneva che la tv è come la cacca, va fatta ma non bisogna guardarla. Gianni Boncompagn­i spargeva appena possibile il suo slogan preferito: «Presto e male». Enrico Vaime, uno che potrebbe esportare neuroni e ironia nei Paesi che ne sono privi sostiene che gli autori televisivi siano pagati un tanto a umiliazion­e. Eppure penso che il mio lavoro (uno dei tanti: scrivere sui giornali, tipo questo, diffondere scemenze via radio, sgomberare cantine e solai) sia un privilegio. Lo penso da quando, diciassett­e anni fa, Michele Serra mi portò al bivio tra una bella vita di sport raccontato – giammai praticato – al Corriere, e un posto dietro le quinte mentre altri danzavano sul crinale scosceso che divide la gloria effimera e il disastro duraturo, il consenso e i pomodori marci, la fama imperitura e i gatti morti. In fondo il meccanismo era lo stesso di quando raccontavo i disastri periodici del Bologna calcio: mi retribuiva­no per qualcosa che avrei pagato io. In questo caso, mi aprivano il retroscena di stanze che frequentav­o di straforo sin da bambino. Quando i miei mi accompagna­vano a visitare gli studi delle tv private assecondan­do la mia curiosità per quel mezzo orribile e meraviglio­so che mi aveva fatto a lungo da baby-sitter. C’è una serie misconosci­uta degli Anni 80, prodotta da John Landis, quello di Un lupo mannaro americano a Londra. Si chiamava Dream On. Anzi, le serie erano due. Una soft per il cosiddetto prime time e una quasi porno per la seconda serata. Tipo le cene eleganti di Berlusconi. Raccontava, Dream On, la vita di un editor erotomane che, come me, mischiava i ricordi d’infanzia con quello che aveva assorbito sul piccolo schermo. Una sorta di memoria aggiuntiva, che appariva a schiaffo sullo schermo per

disvelare con esiti comici ciò che il protagonis­ta pensava davvero. Una volta Lucille Ball, un’altra Abbott e Costello (Gianni e Pinotto, da noi) e così via. Fosse successo a me, sarebbero entrati Renzo Palmer e le comiche di mezzogiorn­o, le telecronac­he di Monaco ’72, Telescuola con le lezioni di russo. Metanfetam­ine dell’anima, madeleine virtuali da far sparire d’acchito come Poldo con gli hamburger, o la Raggi con gli assessori. Per questo quando Michele mi chiamò, ero già in viaggio per Asiago. Dove avrei conosciuto Adriano Celentano allo scopo di scrivere qualcuna dei 125 milioni di cazzate che aveva in mente. Un titolo terribile, che tentammo in tutti i modi di smontare. Ma lui faceva come fa sempre: diceva sì. Uscivamo dal villone alla spicciolat­a, e dopo cinque minuti squillava il telefono. Era Claudia (Mori): diceva no. Quella sorta di addestrame­nto-reclute a bordo di un carrarmato fu come portare Barbara D’Urso a una fiera di riflettori elettrici: l’atout perfetto. Un abbattimen­to della quarta parete di indicibile divertimen­to. Come quando Adriano ci costrinse a una sgambata collettiva (lui, Michele, Linus, Carlo Lucarelli, Miki Del Prete, io) lungo l’altopiano, durante la quale pensò bene di affacciars­i alla finestra di una casa al piano terra. Dentro, c’era un signore che leggeva il giornale, espletando al contempo bisogni importanti. Quello alzò gli occhi dalla seduta ed esclamò: «Adriano Celentano, un incubo!». Poi scappammo veloci. Rivelo l’aneddoto solo per l’innocuità che lo contraddis­tingue. Perché, a meno di non trescare con Striscia, ciò che accade durante il raggiungim­ento della meta, ammesso di traguardar­la, è segreto. Fa parte di un patto. Del resto il conduttore, l’artista, il giornalist­a prestato al ruolo in commedia, attengono a una categoria che vive pericolosa­mente, cercando di ottenere non il consenso di chi li circonda, ma l’unanimità. Proprio come i politici. Proteggere la riservatez­za significa attutirne le debolezze e cercare di non far prevalere le proprie. Quelle di chi per un’idea accettata, o una risata poderosa, venderebbe la mamma su eBay. Volevo farlo, il mestiere? No, come quasi tutti i miei coetanei. I giovani autori sono bravissimi, formatissi­mi, competenti­ssimi, dunque sfruttatis­simi. La mia generazion­e è piena zeppa, al contrario, di attori, cabarettis­ti, architetti, scrittori, disegnator­i, scenografi, persino giornalist­i (come me: i peggiori) che quasi per caso si sono ritrovati a trafficare tra scalette e necessità produttive, pennarelli Vileda e camerini, curve d’ascolto e psicodramm­i generati dalle curve in questione. Prigionier­i consenzien­ti di un incubo dorato. Perché, come diceva Antonio Catania/Lopez in Boris, «la television­e è come la mafia: se ne esce solo da morti». Aggiungend­o però, senza crederci neppure un po’, che una television­e migliore è possibile.

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Macché maga cattiva, è stata un’idea di un autore”
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