SBAGLI PERFETTAMENTE RIUSCITI
Ai confini della realtà
SBAGLIANDO NON SEMPRE SI IMPARA. Anzi. Sfogliando l’antologia del fallimento più o meno d’autore, del progetto che prometteva tantissimo e che si rivela invece un fiasco, dell’architettura urbana trasformata nel simbolo di «quello che non si dovrebbe mai fare» in una città, del lapsus illogico che riesce a diventare (proprio per la sua illogicità) un quasicapolavoro, viene da pensare che l’esperienza dell’errore davvero non aiuti. Tutt’altro. Forse, però, è meglio così. Perché questa è l’idea che l’autore di Che sbaglio! Erik Kessels ha mutuato da Truman Capote, cioè che sia proprio il fallimento a dare la giusta misura (e il giusto sapore) al successo (sempre che questo successo poi arrivi). Kessels (come definirlo? Pubblicitario, artista, fotografo, designer, editore, gallerista o più genericamente creativo di ultima generazione pur essendo nato nell’ormai lontano 1966) è certo un tipo particolare. Capace (lo aveva già dimostrato questa estate con la mostra The many lives of Erik Kessels al Camera / Centro italiano per la fotografia di Torino) di pensare lavori quantomeno inusuali come My Feet, maestosa installazione composta esclusivamente dalle immagini dei piedi di chi fotografa. O In almost every picture, ciclo di 14 progetti «centrati ogni volta su un soggetto ossessivamente ricorrente», dedicato (tra gli altri) a Valery, una donna che per tutta la vita si è fatta fotografare immersa nell’acqua; fino a Oolong, il coniglio equilibrista, e a un cane troppo nero per apparire correttamente in
fotografia. Eppure questo suo vademecum dell’errore (o meglio della speranza che in tutto ci sia sempre qualcosa di buono, persino in una brutta fotografia scattata quasi per caso) è capace in qualche modo di superare se stesso. Riuscendo a trovare un senso e una speranza in quello che all’apparenza sembrerebbe essere solo un fallimento (un’altra delle lezioni di Kessels è che lo sbaglio è molto democratico, tocca l’esercito anonimo del selfie e una multinazionale dell’abbigliamento low cost come H&M). Sia che si tratti dell’epico insuccesso di Newton, l’attesissimo palmare di Apple (correva l’anno 1993); dei bagni «bizzarri» (magari con il bidet messo sotto il lavandino) di McDonald’s; della terrazza (ma senza una portafinestra attraverso cui entrare) pensata da un anonimo (fortunatamente per lui) architetto; di un grande manifesto pubblicitario (tipo quello di Anita Ekberg in Boccaccio ‘70) che letteralmente scombina la classica anatomia umana.
KESSELS CITA BECKETT («Ho tentato. Ho fallito. Non importa. Riproverò. Fallirò ancora. Fallirò meglio») e Churchill («Il successo è l’abilità di passare da un fallimento a un altro senza perdere l’entusiasmo») per giustificare un altro dei frammenti del suo elogio dello sbaglio: «Se volete farvi notare fatevi un regalo e smettete di cercare la perfezione, perché è esattamente quello che abitualmente fanno tutti gli altri». Meglio, allora, non cercare di raggiungere l’eccellenza (quella nascosta nell’ipotetica cifra del «110 per cento» del nostro impegno quotidiano), ma piuttosto nella differenza. O, almeno, in un’altra prospettiva (la stessa che fotografi-artisti come André Thijssen e Ruth van Beek hanno cercato di acchiappare). Magari guardando sotto un’ottica diversa immagini nate con un altro scopo «per attivare nuove letture e nuovi significati». E puntando sugli archivi, di qualsiasi tipo essi siano (scientifici, industriali, di famiglia, online), serbatoio privilegiato della ricerca onnivora di Kessels. Un serbatoio che in pratica annulla generi, autori, epoche. Così dietro lo specchio (deformato) di Kessels trovano posto addirittura i famigerati scarti, trasformati in qualcosa persino di seducente (un altro esempio: i puzzle shakerati e
«SE VOLETE FARVI NOTARE SMETTETE DI CERCARE LA PERFEZIONE, PERCHÉ È ESATTAMENTE QUELLO CHE ABITUALMENTE FANNO TUTTI GLI ALTRI
riassemblati fuori dagli schemi da Kent Rogowski). Non è una cosa certo nuova: come lui (e il libro rende giustamente onore a questi antagonisti) si muovono personaggi ispirati, come Joachim Schmid (che con una scatola piena di negativi scartati ha creato immagini meravigliosamente inverosimili), Heike Bollig (che invece ha collezionato una serie di oggetti, dalla biglia che non rotola al palloncino sgonfio e li ha fatti diventare installazioni d’autore) o Kurt Caviezel (che ha assemblato un universo di immagini imperfette, interrotte ad esempio da un oggetto gigante che sorvola le piramidi di Giza quasi si trattasse di un film horror).
UN ULTIMO CONSIGLIO. Kessels ama ravanare tra le foto-rifiuto dei fotografi «per restituirle allo sguardo collettivo sotto una prospettiva completamente rinnovata». E dunque, per la maggior parte dei suoi progetti, raccoglie scatti preesistenti e li riutilizza come tasselli all’interno del suo mosaico ideale. Per lui, fotografo senza macchina né obiettivo, la fotografia è dunque un ready-made alla maniera di Duchamp, oggetti d’uso comune dotati di statuto artistico. E allora, se non volete lasciare traccia (fotografica) delle vostre catastrofi, non gettate niente (nemmeno una Polaroid tagliata con le forbici) nel cassonetto dell’immondizia. Potrebbe passare di lì uno strano olandese (Kessels appunto) e voi potreste ritrovare quel vostro stesso sbaglio (trasformato e nobilitato) in una mostra o addirittura in un libro.
KESSELS AMA RAVANARE TRA LE FOTO-RIFIUTO DEI FOTOGRAFI PER RESTITUIRLE ALLO SGUARDO COLLETTIVO SOTTO UNA PROSPETTIVA RINNOVATA