Corriere della Sera - Sette

È tempo di salutare l’America irrequieta

(ma il mio cuore resta lì)

- di Guido Olimpio 94

Dopo dieci anni abbandono Washington e la mia casa circondata da un bosco con gufi, picchi, daini e volpi. L’arrivo era stato duro: colpa della burocrazia. Poi mi sono lasciato avvolgere dal loro sistema: ingiusto, pratico, fragile, spietato. Comunque sempre un sogno, paragonato ad altre realtà L’HO APPENA LASCIATA E MI MANCA GIÀ. Dopo dieci anni ho chiuso la mia esperienza di vita e di lavoro negli Stati Uniti. Passo difficile, inevitabil­e, legato a scelte familiari comunque importanti. Ricordo che qualche mese prima della partenza ho detto a mia moglie: «Non riesco a vedermi in nessun altro posto che questo». Ed è così. Sarà così. L’inizio, nel settembre del 2007, è stato aspro. Colpa della burocrazia – sì, anche negli States – che nei primi due mesi mette a dura prova nervi, pazienza, calma. Ti sembra che non abbiano mai conosciuto il termine buon senso. È come dover scalare una piccola montagna, con tanti pendii, uno dietro l’altro. Ma una volta superata la “transizion­e” procedi con il pilota automatico e ti lasci avvolgere dal loro sistema. Che è un insieme di aggettivi: ingiusto, pratico, meritocrat­ico, severo, cortese, spietato, fragile, competitiv­o. Ho scelto di vivere in un sobborgo di Washington, a mezz’ora di auto dal centro, per via della scuola di mio figlio: pubblica, ben organizzat­a, con insegnanti e dirigenti di valore. Un sogno, se faccio dei confronti con altre realtà. Come era un sogno ciò che vedevo all’esterno della mia abitazione, nel bosco circostant­e. I daini, i gufi, i picchi, i “cardinali”, gli avvoltoi. Una volta davanti all’uscio si sono messi a giocare due cuccioli di volpe, aspettavan­o che la “madre” tornasse dalla caccia. E un inverno, dopo pranzo, ho scorto un coyote nella neve. Ricordo ancora la corsa verso il torrente per fotografar­e le orme. Natura pura a due

metri da un’autostrada sempre intasata. Poi il mio lavoro. Davanti a me si è aperto un orizzonte infinito, la possibilit­à di incontrare persone interessan­ti, seguire crisi ed eventi. Ho scritto di terrorismo, sicurezza, attentati. Ho indagato su vecchi delitti, spesso ignorati dai media locali. Casi che mi hanno fatto scoprire località remote e individui ossessiona­ti da un omicidio irrisolto. È l’America: nessuno si stupisce se cerchi, nessuno ti guarda male se bussi a una porta dopo vent’anni. Storie cupe, storie vere. Ho avuto la fortuna di conoscere giornalist­i eccezional­i, come il due volte Premio Pulitzer Joby Warrick. Un collega e amico. Profession­ale quanto umile. Non cammina sull’acqua, continua a fare il suo mestiere come fosse il primo giorno. Un segno di grandezza.

E NON SAREI SINCERO se non ammettessi che il vero legame, indissolub­ile, è con l’America dell’America: definizion­e splendida data da qualcuno al West. La mia passione, figlia dei ricordi di bambino, di John Wayne, del fascino per i pionieri e gli indiani. Posso dire di conoscere alcuni angoli della frontiera meglio delle pareti di casa mia. Ho camminato in zone impervie sul confine messicano, ho accompagna­to i samaritani che lasciano l’acqua nel deserto per gli immigrati clandestin­i, sono stato insieme ai trackers che seguono le tracce dei trafficant­i, ho studiato la Border Patrol alla ricerca dei tunnel della droga, ho percorso i sentieri nei grandi parchi. È come se avessi anch’io “esplorato” il Sud Ovest. Cercando notizie per articoli, ma anche personaggi unici per storie piccole, microcosmi di un mondo che non è mai svanito. Ho scoperto che alcuni luoghi sono più selvaggi oggi che nel 1860. La storia di un cinese che ha resistito fino all’ultimo nel villaggio fantasma nel sud dell’Arizona. La saga di una famiglia di italiani partiti da Ivrea alla vigilia del primo conflitto mondiale e finita a due passi da Tombstone, la città dei pistoleri. C’è questo nel bagaglio rispedito in Italia. C’è molto di più.

A FINE LUGLIO ho mandato una mail al mio amico Jim, allevatore in un’area complicata, a sud est di Tucson al confine con il Messico. Posto magnifico minacciato in qualche occasione dai narcos che transitano con i loro carichi di marijuana e tengono un Kalashniko­v in pugno. Gli ho spiegato che avevo lasciato gli Usa e lui mi ha risposto semplice: «Nel nostro ranch ci sarà sempre una luce accesa per te e la tua famiglia». Quella luce continuo a vederla.

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CARTOLINE DELLA MEMORIA Il Thomas Jefferson Memorial, a destra, e il grande obelisco (alto 169 metri) del Washington Monument: due dei simboli della capitale americana
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