Tu chiedimi chi era Alda
Della grande poetessa milanese Alda Merini, in realtà, si sa ancora troppo poco. Per anni nell’indigenza, è stata scoperta dal grande pubblico solo nei suoi ultimi anni di vita. Ora però anche i millennials potrebbero finalmente imparare a conoscerla graz
ERA UNA DI QUELLE PIOGGE d’inverno che davano l’impressione di non finire mai. Gli ombrelli nel contenitore all’ingresso dei ristoranti sembravano fiori piantati male, la gente camminava veloce verso casa. Era ora di cena. Io mi muovevo con le mani in tasca e gli occhi allegri. Il Naviglio era lì, a un passo, proprio come l’aveva descritto nel Delirio amoroso: stanco, riottoso, stracarico, colpevole, drogato di sogni, ma anche struggente come una lacrima. Sono passati nove anni da quel dicembre del 2008, tempo del mio primo incontro con Alda Merini, la pazza della porta accanto, la poetessa che cantava il dolore e l’esclusione perché ne portava i segni sulla pelle, non perché li viveva in modo lette- rario. Sulla porta di casa aveva attaccato un cartello con su scritto “Private”, quasi una rivincita sugli anni in manicomio, che ne avevano rallentato la carriera e annientato l’intimità. In Ripa di Porta Ticinese 47 non entrava nessuno che lei non volesse. Non era una casa: era una dichiarazione d’indipendenza. Le stanze avevano il sapore acre che portano le finestre quasi sempre chiuse, come se aprirle comportasse il rischio di veder volare via qualcosa di importante, e non era il caso, visto che troppe cose erano già volate via negli anni. La vasca da bagno era piena di libri fino all’orlo, i tavoli stracolmi di roba. Sui pavimenti si ammucchiavano lattine vuote e giornali vecchi. I muri erano interamente coperti da numeri di telefo-
Fedele compagna/ atrocemente bella/perché la bellezza/solleva valanghe di amore,/ sappi che a volte/il sesso è uguale alla preghiera/una preghiera che nessuno ascolta/ e nemmeno l’innamorato./Ma il tuo volto bianco/di donna adolescente/ha amato la mia solitudine/ e ti assicuro/che ho lasciato ogni uomo amato/per venirti a vedere ( A Milva, poesia inedita, 24 gennaio 2007)
no, scritti a matita o con il rossetto. Il rossetto, insieme alle collane, era uno dei pochi vezzi di Alda Merini. Durante la lunga intervista, lo metteva continuamente sulle labbra. E poi, una sigaretta dopo l’altra, senza mai preoccuparsi di usare il portacenere, nonostante fosse vicino a lei. La cenere finiva regolarmente sui vestiti, senza alcun problema. Alda Merini era, sotto ogni punto di vista, unica. Anche quando non aveva i soldi nemmeno per mangiare, era generosa fino all’inverosimile – pochi giorni prima del nostro incontro aveva messo in mano a un barbone cento euro, quando lui se ne accorse provò a gridare che forse si era sbagliata, ma lei era già sparita. Era ostica e burbera, ma capace di improvvise dolcezze. «Non aspetto le carezze», diceva, «e quando le distribuisco lo faccio a modo mio». Passava dalla battuta feroce al ragionamento profondo, dalla risata al pianto, quando parlava di sua figlia Barbara e di suo marito,
Molti signori mi chiedono cos’è l’amore/chi è Gesù e hanno paura di Dio./Io no Signore./Ho giocato con te per tutte le strade,/per tutte le vie di Milano./ Poi un giorno mi hai guardato/con un certo interesse e io ho avuto paura./Mi sono vestita da monaca,/sono finita nei manicomi,/ma tu mi hai strappato/anche gli ultimi stracci che avevo./Volevi vedermi perché ero tua creatura./Gli uomini non mi hanno capita./Tu sì [...] ( Io e Gesù, poesia inedita, 13 giugno 2008)
«l’unico uomo che abbia amato, scrivo solo per lui e la gente non l’ha mai capito». Quando provai a introdurre una domanda dicendo: «Parliamo delle sue poesie», lei mi disse: «No, parliamo della poesia. Le mie poesie sono solo una conseguenza di qualcosa di più grande». Non era interessata a raccontare la sua vita, ma a ribadire alcuni concetti: «Io la poesia non l’ho cercata, è arrivata. Mi ha invasa, mi ha posseduta e io non l’ho abortita. La poesia non è un passatempo. Scrive perché è obbligato, il poeta. Se non scrive, muore. Ma a volte muore anche quando scrive, perché nei versi c’è un infinito dolore. Grazie alla poesia ho conosciuto l’universo anche senza comprenderlo, però l’ho catturato». Alda Merini preferiva parlare degli amici e, soprattutto, degli inizi, come se il successo fosse meno importante. Meglio ricordare Silvana Rovelli, la sua insegnante di italiano e cugina di Ada Negri che nel 1947 fa leggere alcune poesie della Merini a Angelo Romanò, che a sua volta le mostra a Giacinto Spagnoletti. E tutti a convenire che, sì, quella ragazza non solo ha talento: è diversa. La invitano a frequentare via del Torchio 61, che è casa di Spagnoletti, ma anche rifugio degli intellettuali («eravamo trafficanti di merce spirituale»). Lì incontra Pier Paolo Pasolini («taciturno, ma pieno di resistenza fisica»), Giorgio Manganelli («mi sbriciolava nella scollatura del vestito e rideva») e Maria Corti, che sarà fondamentale per il successo. La pubblicazione della prima poesia porta con sé, come sempre accadrà, luci e ombre. Alda Merini torna a casa entusiasta e fa leggere a suo padre la recensione di Spagnoletti. Il padre nemmeno legge, fa a pezzi il ritaglio e poi dice:
«Ascoltami, cara, la poesia non dà il pane». Sarà sempre così, per la Signora dei Navigli: gioia e dolore. Montale e Quasimodo che ne lodano i versi e il marito che la fa internare in manicomio, Pasolini che la paragona a Rilke e la pazzia che rompe gli argini. Gli anni dell’oblio e della povertà e la rinascita, quando Giovanni Raboni scrive sul Corriere della Sera uno straordinario articolo sul “caso Alda Merini”. Arrivano soldi e riconoscimenti. Lei non ci fa troppo caso. Quando vince il Montale, ritira il premio in denaro di 35 milioni di lire e si trasferisce all’hotel Certosa, dove in breve finisce i soldi, quasi tutti regalati agli amici e ai barboni, che poi sono spesso la stessa cosa. «Non sono mai stata prigioniera di nessuno, se non dell’amore. Nemmeno in manicomio. Ero prigioniera nel corpo e nel dolore, ma il mio spirito era libero. E libera sono rimasta». La cosa buffa di Alda Merini è che della sua vita si sa veramente poco. I libri su di lei, le note biografiche in calce ai suoi volumi dicono sempre le solite cose, spesso distanti dalla verità. Colpa della stessa poetessa, che amava rispondere e ricostruire in modo sempre diverso, come sanno bene tutti quelli che l’hanno intervistata. Quando le domandai il perché di questo suo nascondersi, lei rispose che si trattava di altro: «Il poeta è una persona sola, non una sola persona. Soffre di solitudine, ma dentro ha infinite altre persone. Tutto quello che racconto è vero, anche quando è falso, anche quando non è accaduto. Io non lo so cosa sia successo veramente. Io so quello che so quando parlo». Alla fine, se di quel memorabile primo incontro devo fermare due soli ricordi, scelgo la poesia che ha improvvisato per mio figlio Francesco Danilo, che all’epoca aveva 22 mesi, e che per mia fortuna è catturata in video, e l’ultima sua risposta. Alla mia domanda: «Chi è Alda Merini oggi?», lei rispose così: «Sono una donna qualunque che ha una bocca senza denti. Sono un genio che ha una bocca senza denti. Sono una persona che continua a sognare. Ho la fortuna di sognare a occhi chiusi e a occhi aperti. A volte provo anche a spiegarmeli, i sogni; altre volte me ne frego. Mi accontento di poco. Il mio più grande sogno è qualcuno che vada tutti i giorni a comprarmi le sigarette. E che ha imparato a convivere con la sua follia. Morirò qui sul Naviglio, almeno spero, tra la mia gente. Vuol sapere che cos’è davvero lo spirito dei Navigli? Una volta il mio panettiere mi ha detto: “Sa una cosa, Alda? Noi abbiamo sposato due pazzi”. Capisce, a me l’ha detto».