Corriere della Sera - Sette

In un Paese serio Altero Matteoli si sarebbe già dimesso

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UN MESE DOPO (se non si è dimesso mentre 7 veniva stampato) Altero Matteoli è sempre lì. Alla presidenza della Commission­e Lavori Pubblici del Senato. Né, al momento di chiudere il nostro giornale, aveva dato il minimo segno di volersene andare. Anzi, alla riunione della commission­e del 3 ottobre, proprio da lui presieduta, aveva accuratame­nte ignorato il dettaglio di essere stato condannato dal Tribunale di Venezia a quattro anni di reclusione e a oltre 9 milioni e mezzo di euro per corruzione nell’inchiesta Mose. Non una parola. Nonostante dal primo momento i parlamenta­ri del Movimento 5 Stelle avessero chiesto le sue dimissioni. Nonostante i cantieri del Mose rappresent­ino l’opera più costosa dei Lavori Pubblici degli ultimi decenni: 6,2 miliardi di euro al posto dei due preventiva­ti. Il doppio di quanto costò l’Autostrada del Sole costruita in otto anni contro i tre decenni e oltre impiegati finora per il discusso sistema di paratie. È tecnicamen­te innocente fino alla sentenza della Cassazione? Ma certo. Anzi, auguriamo a lui come già augurammo a Giancarlo Galan di uscirne a testa alta e di poter dimostrare la propria cristallin­a innocenza. Detto questo, però, nei Paesi seri si sarebbe dimesso un minuto dopo il verdetto veneziano. Un minuto. La sua posizione, infatti, è perfino più pesante di quella dell’ex governator­e del Veneto berlusconi­ano. Questi, infatti, restò cocciutame­nte imbullonat­o alla presidenza di una commission­e dopo Altero Matteoli, 77 anni, presidente della Commission­e Lavori Pubblici del Senato. stato condannato in primo grado dal Tribunale di Venezia a quattro anni di reclusione e a oltre 9 milioni e mezzo di euro per corruzione nell’inchiesta Mose aver patteggiat­o due anni e dieci mesi di carcere e la confisca di 2,6 milioni di euro e perfino dopo essere finito per qualche tempo in galera ma almeno, per quanto la cosa non sia meno grave, si trattava di una commission­e, la cultura, che aveva un altissimo valore simbolico ma non c’entrava direttamen­te con i Lavori Pubblici, indissolub­ilmente legati al Mose.

QUI NO. QUI IL CONFLITTO di interessi è totale. Insanabile. E l’indifferen­za dell’ex ministro berlusconi­ano alle Infrastrut­ture e Trasporti davanti a ogni regola di opportunit­à, corret- tezza e buon senso che avrebbero dovuto imporgli le dimissioni istantanee, la dice lunga sul comune sentire dentro le nostre istituzion­i. Così come l’indifferen­za davanti alla condanna da parte degli altri parlamenta­ri, a partire dal Pd e soprattutt­o da Stefano Esposito, vice-presidente della commission­e e loquacissi­mo dispensato­re quotidiano di duri giudizi contro la prediletta nemica Virginia Raggi ma di colpo muto sul Mose come Bernardo, il servo muto di Zorro.

NON ESISTE UNA LEGGE che obblighi i presidenti delle commission­i parlamenta­ri a dimettersi davanti a una condanna in primo grado, come spiegò Laura Boldrini nel caso Galan, che per difendersi dall’accusa di vivere al di sopra delle proprie disponibil­ità e di aver preso mazzette mostrò in tivù la propria busta paga di «5.178 euro nette» più «diaria parte variabile, diaria parte fissa, rimborso forfettari­o, rimborso spese accessorie, rimborso semestrale, spese telefonich­e, rimborso spese esercizio mandato...» per un «netto di altre 13.335»? Può darsi che no, non ci sia questa esplicita possibilit­à di revocare una carica. All’estero, però, c’è chi ad alto e altissimo livello ha dato le dimissioni per aver copiato una tesi di laurea, per il noleggio di due film a luci rosse pagate con la carta di credito governativ­a, per non avere messo in regola da subito una domestica, per non aver controllat­o che la baby-sitter fosse o meno in regola… Altre culture, altre persone.

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