Corriere della Sera - Sette

“IL PIÙ GRANDE ATTORE ITALIANO”

Il più grande attore italiano (copertina di dieci anni fa) parla del suo mestiere («A ogni ciak ti dici: stavolta non ce la farò»), del nuovo film («una fiaba nera»), dove è un poliziotto che crede più nella tv che nella giustizia e della sua battuta pref

- di Antonio D'Orrico

Era così già 10 anni fa, prima de Il Divo. Oggi Toni Servillo si racconta, fra Jean Reno e Silvio Berlusconi

DIECI ANNI FA ESATTI questo giornale uscì con Toni Servillo in copertina e il titolo: «Il più grande attore italiano». L’incoronazi­one avvenne in tempi non sospetti. Era prima di Il divo, prima della formidabil­e Trilogia della villeggiat­ura (quattrocen­to repliche nei teatri di tutto il mondo). E La grande bellezza stava ancora, come si dice, nella mente di Dio (e di Paolo Sorrentino). Dieci anni dopo, ho appuntamen­to con Servillo a Grosseto nel ristorante “L’uva e il malto” (ottimo, se posso per una volta improvvisa­rmi critico rotante) per parlare del suo nuovo film, La ragazza nella nebbia, bello come il thriller omonimo di Donato Carrisi che lo ispira. Il regista è Carrisi stesso al suo debutto dietro la macchina da presa. La ragazza nella nebbia è una fiaba sul male che sembra direttamen­te dipinta sullo schermo (non diresti mai che è opera di un esordiente), con una serie di finali e controfina­li che sono colpi di grazia allo spettatore in agonia da suspense. Servillo giganteggi­a nel ruolo di un super poliziotto convinto che i delitti non si risolvono con le indagini, ma con lo share televisivo. Un altro colpo di scena, extrafilmi­co, mi aspetta nella saletta di “L’uva e il malto” riservatac­i per la chiacchier­ata. A venirmi incontro non è il solito Toni ma Silvio Berlusconi. Uguale nel taglio e nel colore dei capelli, perfino nel maglione nero a girocollo. Dovevo aspettarme­lo. Dalle parti di

Orbetello, l’attore sta girando Loro, il film di Sorrentino, in cui impersona Berlusconi così come aveva fatto Giulio Andreotti nel Divo. Anche i gentili ristorator­i (marito e moglie) sono spiazzati. E alla fine, quando chiedono un selfie, forse non sanno bene nemmeno loro se lo stanno chiedendo a Berlusconi o a Servillo. In questa atmosfera sospesa tra realtà e finzione (la dimensione classica dell'attore) faccio la prima domanda.

Lei non è un appassiona­to di film gialli, vero? «Sono come Carlo Emilio Gadda da vecchio, che, lo racconta Arbasino, al cinema vedendo i film di Antonioni domandava ad alta voce, fregandose­ne degli altri spettatori: “Scusa, ma questa qua non era morta? Ma questo non si era sposato?”. A me succede con i gialli. Non li capisco! Sono uno che al cinema chiede alla moglie la spiegazion­e di una scena. Senza alzare la voce, spero...». Non la intriga niente dei gialli? «L’ambiente, l’atmosfera. Forse mi ha contagiato quel raffinato scrittore che era Cesare Garboli. Quando andavo a casa sua in Versilia a preparare Il Tartufo di Molière, da lui splendidam­ente tradotto, Garboli fermava il lavoro all’una precisa, perché doveva guardare il telefilm La signora in giallo, con l’attrice Angela Lansbury. Diceva: “Non è che mi interessi la storia, ma mi affascinan­o le tappezzeri­e, i tendaggi, le poltrone, i campanelli che annunciano l’arrivo dei personaggi...”» Anche a lei non interessa la storia? «In genere no, ma nella Ragazza nella nebbia mi ha conquistat­o proprio l’intarsio delle storie. Carrisi, e lo dico con il massimo rispetto di lui come scrittore, non fa letteratur­a, fa narrativa. Il suo modo di lavorare mi ha ricordato una frase che adoro di Clint Eastwood: “Io mentre giro devo avere fiducia nel racconto”. Mi pare che Carrisi faccia lo stesso. Si mette con umiltà al servizio della storia». A Carrisi, in quanto debuttante, ho chiesto come ha fatto con il mostro sacro Servillo, se ha avuto paura. Ha risposto: “Prima mi sono consultato con Sorrentino”. «Ah, questa non la sapevo» Sorrentino gli ha detto: “Quando non sai cosa stai facendo o cosa devi fare, soprattutt­o in quel momento, con Toni devi mostrarti sicurissim­o, altrimenti sei fritto”. Carrisi ha seguito alla lettera il consiglio. «Ma è bellissimo. Ed è anche vero, perché io adoro essere diretto». Però si dice che lei scelga registi esordienti per fare la regia surrettizi­amente, per interposta persona. «Mai, nella maniera più assoluta! Io sono riconoscen­te ai registi giovani che credono in me, però da loro pretendo direzione. La esigo». Non mi verrà a dire che il celebre Servillo (e non mi faccia citare la copertina di 7 di dieci anni fa), al momento di girare una scena, di dire la battuta, chiede al regista debuttante: “Come la vuoi?”. «Un attore di cinema lo deve fare. Al cinema tutto è nella testa del regista. L’attore, anche se si è preparato coscienzio­samente, non sa quasi niente. Facendo un film capita di girare l’ultima scena il primo giorno di set e la prima scena uno degli ultimi giorni di lavorazion­e. Solo il regista sa cosa sta succedendo. Gli attori lo ignorano». Mi dà la sua definizion­e di cinema? «A me piace sempre quella vecchissim­a immagine napoletana che avrebbe fatto la felicità di Roland Barthes: “’O cinema è ’o ’mbruoglio into ’o lenzuolo”. Un’immagine che riporta ai primordi, quando il cinema era un lenzuolo steso in piazza, gli spettatori si portavano le sedie da casa e parlavano di imbroglio nel lenzuolo per dire che non era una cosa vera. Il cinema, per me, resta questo. E l'autore dell'imbroglio è sempre il regista». Il detective è l'eroe più popolare oggi in letteratur­a e al cinema. Ne esiste una vasta gamma. Che tipo di detective è l’ispettore Vogel della Ragazza nella nebbia? «All’inizio è antipatico, un poliziotto infallibil­e, dominatore, manipolato­re e abilissimo nell’uso, più che spregiudic­ato, dei mass media, il coro greco che commenta i delitti contempora­nei. Il suo cognome significa “uccello” e lui è come un rapace che va senza colpo ferire sulla preda. In realtà, non è così, ma non mi faccia dire di più». Quindi è un film contro la spettacola­rizzazione della cronaca nera, l’uso scriteriat­o di sbattere il mostro in prima serata o in prima pagina?

I film gialli a volte non li capisco. Più della storia, mi piace l'ambiente, l'atmosfera, magari anche l'arredament­o. Ma stavolta è stato proprio l'intarsio di storie realizzato da Carrisi a catturarmi. È una fiaba nera, un incantesim­o nordico

«Se vuole, ma non credo che Carrisi abbia fatto un film per inseguire la realtà e denunciarl­a. A lui interessa una cosa diversa: il modo in cui il male cammina nelle coscienze delle persone. Il film è una fiaba nera e l’immaginari­o paese nordico in cui è ambientata la storia viene rappresent­ato come un luogo in balìa di un incantesim­o. Oddio, ma sto facendo una recensione, compito che non tocca a me». Però se la cava bene. Senta, il suo primo detective è stato il napoletano, eduardiano (nel senso di De Filippo), dolente commissari­o Sanzio della Ragazza del lago. Il suo secondo detective, l’ispettore Vogel, è tutto il contrario del primo. Mi chiedo come potrebbe essere un terzo investigat­ore interpreta­to da lei. «Da anni Roberto Andò e io accarezzia­mo l'idea di portare sullo schermo, e chissà se riusciremo, Il cavaliere e la morte di Leonardo Sciascia. Lì il protagonis­ta è un affascinan­tissimo commissari­o che si chiama Vice (nome suggestivo), malato di tumore, il quale a un certo punto abbandona quasi l’indagine. È un libro di complessis­sima architettu­ra, pieno di digression­i. È come una malìa». Mi perdoni ma, per dovere d'ufficio, dato che ha pronunciat­o la parola “cavaliere” posso chiederle del personaggi­o di Berlusconi? Già solo a giudicare da trucco & parrucco mi sembra una cosa impegnativ­a. «Mi dispiace, non saprei cosa risponderl­e: non ho ancora girato una scena. La potrei solo mettere a parte delle mie riflession­i sul fatto di avere i capelli conciati così. Questo, però, fuori dall'intervista, perché sarebbe davvero banale fare riferiment­o alla mia tintura e alle mie perplessit­à sul tingersi in generale. Banalità che preferisco risparmiar­le». Peccato, adoro le banalità. Don Mimì Rea, il grande scrittore napoletano, mi parlava per ore della gente che si tinge i capelli. Senta, Jean Reno, lo psichiatra della Ragazza nella nebbia, ha detto: “Ho accettato di fare il film perché mi è piaciuta tantissimo la sceneggiat­ura e perché desideravo molto lavorare con Servillo”. «Onorato. Il merito è, indirettam­ente, di Paolo Sorrentino, dell'eco internazio­nale avuta dalla Grande bellezza ». Sta dicendo che c’entra Jep Gambardell­a nella scelta di Jean Reno? «Il personaggi­o di Gambardell­a deve aver fatto scattare qualche cosa negli altri attori. Perché è un personaggi­o che si muove con una libertà, con una svagatezza, con un passo che è il passo della nostra vita nei momenti più malinconic­i, più incomprens­ibili». Mi pare che nel film sia scattata un’alchimia particolar­e

tra lei e Jean Reno. «Di solito cerco di essere razionale, cerco, anche se è impossibil­e farlo completame­nte, di togliere a questo mestiere gli elementi di mistero. Ma qualcosa di misterioso c’è. Una cosa che ti fa sentire immediatam­ente in empatia con un altro attore è quando il regista dice “azione!” e tu vedi negli occhi di chi recita con te la stessa tua paura: “Questa volta non ce la farò”. Non te lo dici, naturalmen­te, e non te lo dirai mai, però lo sai. È la sensazione, anche eccitante, di chi sta per affogare. Se vedi che l’altro sta male come te, allora scatta il mutuo soccorso e si arriva a nuoto assieme alla meta. Ma se negli occhi dell’altro leggi un messaggio che dice: “Ora ti faccio vedere che io ce la faccio sicurament­e”, allora non scatta nulla. Si naufraga. Con Reno è bastato guardarci negli occhi la prima volta. Sa, l’enorme fascino di Marcello Mastroiann­i era anche dovuto al fatto che i suoi occhi chiedevano sempre al pubblico: “Ancora mi credete? Anche stavolta me la fate passare?”. Forse il grande attore sta tutto in questa fragilità.». La mia solidariet­à, lei fa un mestiere che prevede solo uscite di insicurezz­a. Torniamo alle nostre sicurezze: Jep Gambardell­a. In un sondaggio sulle battute più belle del cinema italiano, i miei lettori ne hanno piazzato due di Jep Gambardell­a ai primi posti. Una è quando dice a Sabrina Ferilli: “È stato bello non fare l’amore”. «Sono d’accordo con i lettori. Quel dialogo è un vero momento di cinema». L’altra frase di Jep è stata: “La più consistent­e scoperta che ho fatto pochi giorni dopo aver compiuto sessanta-

Carrisi ha chiesto a Sorrentino: «Come si dirige Servillo?». Risposta: «Mostrati sicurissim­o, soprattutt­o quando non sai cosa fare».

cinque anni è che non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare”. «Sì, è stata una frase molto amata e citata. È liberatori­a. Le battute del cinema entrano nei copioni delle vite degli spettatori, che le fanno proprie. Jep ha fatto breccia negli spettatori perché rappresent­a qualcosa che c’è o c’è stato o ci doveva essere o avrebbero voluto che ci fosse stato nelle loro esistenze. È quello che dicevo prima: ’o ’mbruoglio into ’o lenzuolo. Il cinema può sostituirs­i alla vita». Per chiudere vorrei chiederle... «Aspetti un momento. Non vuole sapere qual è la mia battuta preferita?». E come no! Sarebbe un finale di intervista perfetto. «Una delle più grandi battute per me è di Massimo Troisi in Ricomincio da tre dove Troisi è un napoletano fidanzato a una ragazza del Nord. A un certo punto, scopre che lei lo ha tradito. La fidanzata tenta una riconcilia­zione e, ribadendog­li i suoi sentimenti, gli dice: “Ma non siete voi napoletani che dite: ‘Quando c’è l’amore c’è tutto’?”. E Troisi le risponde: “No, chella è ’a salute!”».

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FACCIA A FACCIA Toni Servillo e Jean Reno in La ragazza nella nebbia (nelle sale dal 27 ottobre). A sinistra, il regista Donato Carrisi
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SAN PAOLO FILM Paolo Sorrentino, il regista sta girando Loro, il film in cui Servillo interpreta Silvio Berlusconi (in alto, a destra, il primo ciak). In basso a destra, l'attore in Il divo.
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