MANO LIBERA
Sarajevo, perché vietare a scuola una lingua comune che può unire?
«SERBI E CROATI sono la stessa merda di vacca spaccata in due dal carro della storia». La cruda e celeberrima sintesi usata dallo scrittore e poeta Miroslav Krleža nel libro Le ballate di Petrica Kerempuh per spiegare come sia assurdo teorizzare chissà quali differenze etniche insuperabili tra popoli che si sono mischiati per secoli, non piace al ministro dell’Istruzione del Cantone di Sarajevo. Il quale ha deciso, come ha raccontato sul Piccolo di Trieste Stefano Giantin, di cambiare il modo in cui negli ultimi anni sono stati cresciuti gli scolari. L’innovazione, che ha spaccato il mondo scolastico, «prevede che negli istituti venga utilizzata in futuro solo “una delle tre lingue ufficiali delle nazioni costituenti la BosniaErzegovina”, il bosniaco, il croato o il serbo, sulla base delle preferenze che verranno indicate dai genitori». In pratica, scrive Giantin, «si elimina in questo modo la possibilità di utilizzare il termine “bosanski-hrvatski-srpski” (Bhs), una sorta di “ibrido” onnicomprensivo fra tre lingue dalle esigue differenze – limitate a pochi termini e alla pronuncia di alcune parole (“ekavica” o“ijekavica”) – utile per evitare problemi in scuole miste». La linguista Sandra Zlotrg ha spiegato al giornale triestino che il sistema scolastico locale «è complicato, con tre curricula. In Republika Srpska i bambini studiano il serbo, nelle scuole cattoliche il croato, nella Federazione la materia si chiama invece bosniaco-croato-serbo e letteratura». Ciò vuol dire che fino a ieri non si doveva dichiarare in quale delle tre lingue si studiava. «Di fatto la maggior parte dei bimbi nella Federazione è bosgnacca e si studia bosniaco, ma se c’è qualcuno in classe che preferisce il serbo o il croato l’insegnante “cambia” la lingua durante la lezione». Una scelta sensata, dopo tante divisioni e la mattanza della guerra civile. Una scelta che puntava a unire, non dividere. Macché, il ministero bosniaco, in un sussulto di neonazionalismo, ha deciso che non va più bene. Che quella lingua comune è «un’invenzione artificiale anti-costituziona- le» e che i genitori devono decidere la lingua da usare in classe. Una follia. Che riporta alla memoria i tanti piccoli gesti con i quali venne avviata la disgregazione della vecchia federazione voluta da Tito. Precipitata nel baratro delle stragi fratricide dopo avere vissuto per secoli fianco a fianco finché non era cominciata quella che Fulvio Tomizza, papà italiano e mamma slava, malediceva come il «processo di precisazione della propria identità etnica». Un processo di precisazione sempre più fanatico. E perseguito con accanimento soprattutto da chi si sentiva insicuro del proprio sangue misto, un po’ croato, un po’ serbo, un po’ bosniaco…
ANCHE L’ALTRA VOLTA cominciò così. Con la paura di mischiarsi. Di non essere abbastanza “puri”. E finì con un assedio di quattro anni, la distruzione della città, il bombardamento della biblioteca. Eppure, piaccia o no ai fanatici delle varie parti, Sarajevo resta quella descritta anni fa da Bernard-Henri Lévy: «Sinagoghe e minareti. Chiese e moschee. Il colore rosso scuro, e ottomano, dell’edificio della Presidenza e poi, accanto, le facciate verdi e rosa delle vecchie dimore asburgiche. Insomma, un groviglio di stili. Una giustapposizione di estetiche e di segni diversi che le distruzioni non hanno cancellato. Una città meticcia. Una città impura. Una città che, di questa mancanza di purezza, ha fatto il suo fascino e la sua legge…».