Se Mozart avesse scritto romanzi, ne avrebbe scritto uno alla Vargas Llosa
LO CONFESSO C’È un romanzo a cui voglio più bene di tutti. È La zia Julia e lo scribacchino. E c’è uno scrittore a cui voglio più bene di tutti. Èd è don Mario Vargas Llosa. La zia Julia apre il secondo volume dei Meridiani Mondadori dedicati allo scrittore peruviano. Seguono altri capolavori: La festa del caprone ( il romanzo alla Graham Greene sul dittatore Trujillo), Avventure della ragazza cattiva. Nel primo volume c’erano La città e i cani, La Casa Verde, Conversazione nella “Catedral”. Sono tutti capolavori e altri, come Storia di Mayta, La guerra della fine del mondo, Pantaleón e le visitatrici (di un umorismo senza uguali), rimasti giocoforza fuori, riempirebbero magnificamente un terzo volume. Nessuno oggi ha scritto un tale numero di capolavori e di una tale varietà (commedia, epica, tragedia, farsa, avventura, storia d’amore, opera mondo, giallo). Per non parlare della tecnica, anzi delle tecniche. Vargas Llosa le conosce tutte e le adopera da gran virtuoso. È stato detto (Bruno Arpaia lo ricorda nell’introduzione ai Meridiani) che il suo senso del ritmo e la sua abilità di montaggio avrebbero fatto morire di invidia Orson Welles. Le sue spericolatezze formali, poi, fanno sembrare «rozzo ed embrionale lo sperimentalismo di Faulkner». Vargas Llosa va letto come Flaubert, Stendhal, Tolstoj, Cervantes. È uno di loro, uno dei grandi classici (ne ha la potenza, l’inesauribilità). E ha qualcosa di mozartiano. In particolare, in La zia Julia. Ne so a memoria interi brani (come si fa con le poesie). E un brano lo recitai a (uno stupefatto) Vargas Llosa in persona, incontrato per caso (in realtà, lo avevo pedinato con discrezione) davanti a Palazzo Pitti verso la fine degli anni Ottanta. Mentre lo seguivo nella sua passeggiata, Vargas Llosa si fermò davanti alle lapidi che segnano i luoghi di Firenze citati da Dante nella Commedia. Ricordo che,